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Contributo della prof.ssa Paola Locatin

Significato del termine

Per neocolonialismo si intende un nuovo tipo di colonialismo che è in atto ancora oggi e che porta avanti, in parte, la logica del vecchio colonialismo otto/novecentesco.

I paesi che erasno stati colonizzatori, continuano ad esercitare una forte influenza politica ed economica sulle ex colonie.

Si tratta di un controllo che utilizza strumenti economici e culturali e che va a tutto vantaggio dei paesi ex colonizzatori e non sicuramente a vantaggio dei paesi colonizzati.

Si tratta dunque di un colonialismo “informale” rispetto a quello “formale” che lo ha preceduto, ma non per questo è meno incisivo.

Dopo la seconda guerra mondiale, il colonialismo ha avuto una fase di crisi negli aspetti giuridico-politici ed ha subito una trasformazione:

  • si è adeguato ai nuovi tempi,
  • si è nascosto dietro una falsa disponibilità all’aiuto e al sostegno,
  • ha millantato uan disponibilità alla collaborazione.

Ne secondo dopoguerra gli stati europei hanno intuito che la dominazione politica non era più così vantaggiosa. Era decisamente più redditizio gettare le basi per solidi legami finanziari ed economici.

E così i poteri del Nord del mondo europei si organizzarono per trasferire i poteri di governo a organizzazione elitarie locali.

Un esempio tipico è costituito dalla Gran Bretagna.

Le strutture commerciali e finanziarie che essa sviluppò con le sue colonie durante il dopoguerra furono finalizzate a risanare il suo indebitamento con il dollaro e costituirono la base per i rapporti economici e politici futuri.

Il termine “neocolonialismo” cominciò ad essere usato in maniera diffusa nel secondo dopoguerra, sia nel linguaggio politico sia in quello degli economisti. Con questo termine si definivano le forme di “scambio ineguale”.

Cosa si intende con questa espressione?

I paesi più sviluppati creano una dipendenza sui paesi stati che erano stati loro possedimenti territoriali di tipo:

  • politico,
  • sociale,
  • culturale,
  • economico.

Questo accadde soprattutto in Asia e in Africa.

Kwame Nkrumah

Kwame Nkrumah , il Ghana, la bandiera ghanese, un francobollo in suo onore – Fonte Wikipedia

Kwame Nkrumah (1909 – 1972), fu leader indipendentista e successivamente divenne il primo presidente del Ghana (dal 1960 al 1966).

Operò per condurre il suo paese all’indipendenza. Egli utilizzò il termine “neocolonialismo” nel preambolo della Carta dell’ Organizzazione dell’Unità africana . Si tratta sdi un’organizzazione internazionale che accomunava le nazioni africane. Era stata fondata il 25 maggio 1963.

Lo stesso Nkrumah intitolò il suo libro uscito nel 1965 “Neo-Colonialism, the Last Stage of Imperialism”. (vedi L’Unione Africana: nascita e crescita della cooperazione).

Nkrumah indicò alcuni punti principali i questo nuovo colonialismo successivo all’indipendenza:

  • unione doganale e monetaria tra paese ex colonizzatore e ex colonia;
  • mercati comuni,
  • costruzione e costituzione di basi militari e forniture belliche con lo scopo di istituire regimi conservatori, spesso tramite lo strumento del colpo di stato e dell’assassinio politico.

Una delle principali vittime del sistema di dipendenza neo coloniale è il continente africano, influenzato in passato soprattutto dalla Francia e dalla Gran Bretagna ed oggi sottoposto ad una crescente penetrazione economica da parte della Repubblica popolare cinese.

I critici del neocolonialismo sostengono che gli investimenti delle aziende multinazionali (cioè quelle aziende che realizzano una o più attività in almeno due diversi stati del mondo) non arricchiscono i paesi “sottosviluppati” ma anzi provocano danni a livello umanitario, ambientale ed ecologico alla popolazione locale. Inoltre affermano che questo si traduce in un continuo sviluppo non sostenibile.

Questi paesi rimangono serbatoi di manodopera a basso costo e di materie prime, e allo stesso tempo gli vengono negati gli accessi ad avanzate e nuove tecniche di produzione in grado di sviluppare una loro economia. Tutto ciò ha come conseguenze l’aumento della disoccupazione, la povertà e il calo del reddito pro-capite.

Nelle nazioni dell’Africa occidentale come la Guinea, il Senegal, la Mauritania, la pesca era storicamente al centro dell’economia di questi paesi. Agli inizi del 1979, l’Unione Europea iniziò la negoziazione con i governi dei paesi africani per affidare la pesca al largo delle coste dell’Africa occidentale ad aziende europee. Ciò ha causato un aumento della pesca in quei territori da parte di paesi stranieri, che ha portato un tasso maggiore di disoccupazione e di migrazione in tutta la regione.

Il continente africano è senza dubbio una delle vittime più sfruttate da parte delle multinazionali provenienti da tutto il mondo. Dal 2006 al 2012 si sono accaparrate circa 35 milioni di ettari sottratti per lo più ai coltivatori minori, pratica che viene definita come land grabbing. La multinazionali in molti casi non pagano tasse ai governi dei paesi africani.

La Cina in Africa: opportunità di sviluppo o neocolonialismo?

Afrofocus 2013

«L’Africa deve sbarazzarsi della sua visione romantica della Cina e considerare Pechino come un soggetto capace di comportamenti assimilabili ai vecchi sistemi coloniali». L’invito all’affrancamento è stato lanciato da Lamido Sanusi, governatore della Banca centrale di Nigeria, in un articolo pubblicato lunedì scorso sul sito del Financial Times. Facendosi portavoce dei sentimenti di un numero crescente di opinion leader del continente, Sanusi ha messo in guardia l’Africa.

Secondo il banchiere nativo di Kano (Nigeria), il continente sta spalancando le sue porte a nuove forme di imperialismo. «La Cina prende da noi beni primari e ci rivende prodotti manifatturieri. Questa è l’essenza del colonialismo», ha dichiarato Sanusi all’autorevole quotidiano finanziario britannico.

La Cina, precisa Sanusi, «ormai non è più un’economia sorella del mondo sottosviluppato», ma «la seconda economia più forte del mondo, un gigante capace di esprimere le stesse forme di sfruttamento dell’Occidente».

E rincara la dose, concludendo che «Pechino è uno dei maggiori artefici del sottosviluppo del continente, per questo i paesi africani devono contrastare queste pratiche commerciali ‘predatorie’, come i sussidi e le politiche monetarie manipolative, che procurano alle esportazioni cinesi grandi vantaggi. Al contrario, il continente africano deve rispondere costruendo infrastrutture e favorendo l’istruzione».

Nel 2012 gli scambi commerciali tra Cina e Africa hanno raggiunto i 200 miliardi di dollari, un volume venti volte maggiore rispetto al 2000, anno in cui il governo cinese ha formalmente istituito il Forum on China-Africa Cooperation (Focac), un organismo sovranazionale creato per riunire i leader politici di entrambe le parti.

Alla luce di questo dato, le dichiarazioni del numero uno della Banca centrale nigeriana dovrebbero essere considerate in un’ottica che valuti come Pechino abbia progressivamente elaborato una strategia onnicomprensiva nei confronti del continente africano. Ponendosi sia sotto il profilo economico sia sotto quello politico sullo stesso piano delle potenze occidentali, che hanno rapporti consolidati con i paesi africani da tempi ben più remoti.

I reali interessi cinesi in Africa sono stati e, continuano ad essere, al centro di numerosi accesi dibattiti accademici e politici. Specialisti di numerose discipline prestano sempre maggiore attenzione agli effetti dell’espansione cinese nel continente nero e molti di essi concordano nell’individuare principalmente tre aree di interesse, che agiscono come “leve motivazionali” della politica cinese in Africa.

Esse fanno essenzialmente riferimento all’acquisizione di materie prime, alla ricerca di nuovi mercati e al supporto africano nelle istituzioni internazionali. Si tratta quindi di motivazioni di tipo economico e politico. Le prime sono senza dubbio più rilevanti e per comprenderle è necessario considerare l’elevata crescita economica registrata negli ultimi anni dal Dragone asiatico.

Una crescita costante e sostenuta che ha consentito alla Repubblica popolare di entrare nel terzo millennio come il paese a maggior crescita economica a livello mondiale (accumulando, a partire dal 1980, incrementi annuali di circa il 9%) grazie ad una molteplicità di fattori, tra cui un notevole aumento della produzione industriale.

Proprio la straordinaria crescita del settore industriale ha fatto sì che, dal 1993 ad oggi, la Cina sia diventata il primo importatore netto di petrolio al mondo, scalzando dalla prima posizione gli Stati Uniti lo scorso dicembre, con la conseguenza la percentuale odierna di energia richiesta dal gigante asiatico sia superiore al 15% della domanda aggregata globale.

Nell’orientare la politica estera è quindi diventato fondamentale, per il governo di Pechino, l’obiettivo del mantenimento della sicurezza energetica. Per accaparrarsi riserve sicure e stabili di energia, la Cina si è impegnata in campo politico-diplomatico ed ha incoraggiato l’utilizzo di capitali statali e privati per investimenti in paesi esteri dove, da una parte, poter sviluppare l’industria estrattiva e, dall’altra, costruire le infrastrutture necessarie per portare queste risorse in patria o sul mercato.

Le risorse energetiche africane sono abbondanti, relativamente poco sfruttate e, in quanto collocate di frequente in contesti di forte instabilità politica, spesso soggette ad una debole concorrenza internazionale. Sulla base di questi due fattori, il continente nero rappresenta quindi un bacino ideale per il rifornimento stabile e certo di risorse energetiche. Oggi infatti la Cina riceve dall’Africa più del 30% del suo intero volume di importazione di greggio e, accanto ad esso, grandi quantità di rame, uranio, coltan, oro, argento, nichel, platino e legname.

L’approccio cinese all’Africa è dunque ispirato più dai bisogni interni che da una visione politica globale. La sua attenzione verso il continente africano è interamente riconducibile alla necessità di assicurare un ambiente favorevole allo sviluppo interno, sia in termini di risorse che di nuovi sbocchi commerciali.

Elemento fondante del partenariato cino-africano è il pragmatismo economico: nessuna condizione politica ma solo contratti da firmare. Attraverso la lente della “non ingerenza”, dittature o democrazie sono identiche agli occhi di Pechino. L’unica condizione che il governo cinese impone è il rispetto del principio della cosiddetta one-China policy, attraverso cui riconosce particolare attenzione agli Stati che hanno rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan, per supportare la causa della riunificazione cinese.

Una clausola alla quale ha ormai aderito quasi tutto il continente, visto che Pechino mantiene rapporti diplomatici ufficiali con cinquanta Stati africani su cinquantaquattro. E l’ex Celeste Impero ripaga a suon di dollari la fedeltà africana.

E’ con la forza dei suoi investimenti che la potenza asiatica raccoglie oggi un consenso diffuso in molti strati della società africana e tra le élite politiche, verso le quali il fiume di denaro cinese vale più di ogni altra argomentazione.

Oltre ad accordare varie forme di aiuto economico, sfrutta le materie prime africane e, in cambio, provvede alla costruzione di infrastrutture a titolo anche di assistenza, rilascia borse di studio agli studenti africani per andare a studiare in Cina, offre degli aiuti materiali e tecnici, azzera le tasse dei paesi più poveri.

Secondo Pechino, tale sistema è alla base di un rapporto paritario e di mutuo interesse tra due economie complementari, nel quale entrambi i partner guadagnano e che, non a caso, gli africani francofoni chiamano gagnant-gagnant (accordo commerciale da cui entrambi i partecipanti traggono beneficio relativamente equanime).

Detto sistema, però, non tiene conto di certi criteri internazionali in materia di investimento e di diritti umani, suscitando non poche inquietudini in Occidente. Inoltre, l’Africa deve prestare molta attenzione al rischio di affogare sotto l’eccezionale flusso di finanziamenti.

Per questo dovrebbe adottare una strategia comune di sviluppo continentale, cogliendo l’opportunità cinese e intraprendendo, allo stesso tempo, una via autonoma di sviluppo, senza sfruttare la corsa alle proprie risorse semplicemente per aumentare le quotazioni delle proprie materie prime.

Un simile approccio condannerebbe, ancora una volta, l’Africa alla logica del continente in vendita. Quello di cui ha invece bisogno è una strategia unitaria, la capacità di relazionarsi e di agire come un attore unico per diventare protagonista del suo futuro.

L’Unione Africana: nascita e crescita della cooperazione

Da Lo Spiegone

Lo Spiegone nasce a Roma nel 2016 dall’idea di un gruppo di studentesse e studenti universitari che ora ne compongono la redazione centrale. Il progetto è stato creato partendo dal fatto che spesso nell’informazione i fatti vengono riportati asetticamente, trascurando la voglia dei lettori di approfondire le cause e gli scenari che si aprono per il futuro. L’obiettivo del progetto è quindi quello di fornire strumenti utili ad avere una migliore comprensione dei temi al centro dell’attualità internazionale, comunicando in maniera semplice e diretta le informazioni necessarie per approfondire le notizie e formare così la propria opinione.

L’11 luglio 2000 a Lomé, in Togo, viene firmato da 53 stati l’Atto Costitutivo dell’Unione Africana (AU) che va a sostituire l’ormai obsoleta Organizzazione dell’Unità Africana (OAU) fondata nel 1963.

Alla fine degli anni Sessanta, Kwame Nkrumah era una delle voci più di spicco nell’intero continente: era stato il liberatore del Ghana, che aveva ottenuto l’indipendenza il 6 marzo 1957, e ora si faceva promotore di quelli che lui chiamava gli ”Stati Uniti d’Africa”. L’organizzazione, secondo l’opinione del Dr. Nkrumah, doveva essere composta da tutti gli Stati che avevano già ottenuto l’indipendenza e doveva puntare ”all’emancipazione di tutti i territori africani”. Allo stesso tempo, il suo progetto ambiva a rendere la voce del continente più risonante nelle situazioni di confronto e collaborazione con le altre organizzazioni sovranazionali. Nacque così, il 25 maggio 1963, ad Addis Abeba, in Etiopia, l’Organizzazione dell’Unità Africana (AUO), composta inizialmente da 32 Stati, che andranno ad aumentare fino a raggiungere i 53 Stati firmatari con l’entrata del Sud Africa nel 1994; non era quello che aveva in mente Nkrumah, ma era già qualcosa.

L’Organizzazione dell’Unità Africana aveva riportato i suoi principi, la sua struttura e i suoi obiettivi nella Carta firmata lo stesso 25 maggio. La Carta dichiarava che, con la consapevolezza del fatto che ogni uomo deve poter decidere del proprio destino, intende ”salvaguardare e consolidare” la sovranità e l’integrità territoriale degli stati africani e promuovere la comprensione e la collaborazione tra questi. In più si richiamava la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e la Carta delle Nazioni Unite, affermando che sarebbe stato obiettivo dell’OAU incentivare la cooperazione internazionale osservandone le regole.
Per quanto riguarda la sua struttura, l’organizzazione era composta da quattro istituzioni: l’Assemblea dei Capi di Stato e di Governo, il Consiglio dei Ministri, il Segretariato Generale e la Commissione di Mediazione, Conciliazione e Arbitrato.

Nel corso del tempo la collaborazione degli Stati africani si è rafforzata, tramite la creazione della Comunità Economica Africana, nel 1991, che sta portando avanti ambiziosi progetti riguardanti la volontà di realizzare un mercato unico monetario, creando zone di libero scambio e unione doganale, per poi creare una banca centrale e, infine, adottare una moneta unica (prevede di introdurre l’Afro entro il 2028).

A ridosso del nuovo millennio però, l’OAU iniziò a rivelarsi inadeguata per la risoluzione delle questioni che si affacciavano nel nuovo panorama mondiale: secondo i rappresentati dell’organizzazione, l’apparato decisionale risultava debole e la mancanza di un esercito africano le impediva di intervenire in situazioni di conflitto nel continente.

L’11 luglio 2000 è stata dunque istituita la nuova Unione Africana (AU) che andava a sostituire all’Organizzazione dell’Unità Africana (OAU)

Gli obiettivi portati avanti dall’Unione Africana sono pressoché identici a quelli già fissati dall’Organizzazione dell’Unità Africana: libertà e autodeterminazione dei popoli, tutela dei diritti umani e convivenza pacifica degli Stati del continente sono i punti saldi del loro operato.

Ed è proprio seguendo la via dettata da tali princìpi che nel 2002 si è provveduto alla creazione del Consiglio di Pace e Sicurezza, che si adopera per la prevenzione dei conflitti, come organo di peace-making e peace-building e con aiuti per la ricostruzione dopo un conflitto.

In più l’Unione, per adempiere alle richieste scaturite durante il dibattito del periodo del passaggio dall’OAU all’AU, si è dotato della cosiddettaForza Africana Permanente: essa si compone di contingenti militari, civili e di polizia, ed oltre ad avere funzioni simili a quelle del Consiglio di Pace e Sicurezza, ha anche la possibilità di intervenire militarmente per la risoluzione dei conflitti armati che avvengono tra gli stati membri dell’AU negli scenari di particolare gravità come crimini di guerra, genocidi e crimini contro l’umanità.

In un momento critico per un’altra organizzazione,, l’Unione Europea, che è afflitta dalla presenza di forze anti europeiste diffuse e da cui la Gran Bretagna ha da poco deciso di uscire, l’Unione Africana ha risposto con l’entrata del Sudan nel 2011, così da raggiungere i 54 stati membri (nel 1984 il Marocco aveva lasciato l’OAU a causa dei dissidi riguardanti il caso del Sahara Occidentale e non era entrato poi a fare parte dell’Unione) e soprattutto con l’intento di istituire un passapaorto africano che verrà distribuito entro la fine del 2020.

IL GHANA

da Dire. Agenzia di stampa nazionale

Il presidente ghanese Nana Akufo-Addo ha dichiarato il 2019 “L’anno del ritorno”, invitando tutti gli afrocamericani di origine ghanese a fare ritorno in Africa

1 agosto 2109

ROMA – In Ghana, a partire da oggi e per tutto agosto, si celebra una ricorrenza particolare che coinvolge anche il resto del continente africano: i 400 anni dalla partenza delle prime navi cariche di uomini e donne che i commercianti di schiavi europei trasportarono negli Stati Uniti, avviando un traffico tanto lucroso quanto drammatico per l’impatto che avrebbe avuto su queste popolazioni.

L’emittente ‘Bbc’ riporta la storia di Sicley Williams, origini ghanesi ma nata a Chicago e residente ad Atlanta, dove lavorava dopo gli studi superiori conseguiti a Londra. Williams nel 2017 ha deciso di lasciare il lavoro e la sua citta’ natale per trasferirsi col marito ad Accra, dove oggi lavora come insegnante di yoga nella spa da lei aperta. Cosi’ Williams e’ divenuta ambasciatrice della diaspora ghanese nel mondo, avendo accolto in anticipo l’invito che Akufo-Addo avrebbe lanciato di li’ a qualche tempo.

A gennaio, la donna ha spiegato cosi’ la sua decisione: “Il clima degli Stati Uniti era diventato troppo pesante. Il razzismo è forte”. Dopo aver visitato vari Paesi dell’Africa occidentale, Williams ha deciso di tornare in Ghana: “ È bello vivere in un posto dove ti senti piÙ accettata e libera di essere e comportarti come sei realmente”.

Secondo Williams, “sull’Africa in generale, e quindi anche sul Ghana, i media riportano solo notizie negative. Ma grazie alla campagna ‘L’anno del ritorno’, a cui danno voce i social media, si possono incoraggiare i viaggi di ritorno o il turismo, e quindi favorire una vita migliore per il Ghana”.

Nancy Pelosi, la presidente della Camera degli Stati Uniti, si è recata ieri ad Accra per partecipare alla cerimonia commemorativa dei 400 anni dall’inizio della schiavitu’. Un’occasione per visitare anche un campo di raccolta delle persone che venivano catturate per poi essere vendute come schiave. Incontrando Akufo-Addo, Pelosi ha dichiarato che vedere quel campo è stata “un’esperienza che mi ha cambiato la vita”.

Una porta sormontata da un arco che si affaccia sull’Oceano Atlantico in fondo al grande cortile del Castello di Cape Coast in Ghana. È la “Porta del non ritorno”; da qui salpavano le navi che trasportavano migliaia di africani verso le piantagioni americane. Da qui e da luoghi simili – se ne contano almeno trenta – 24 milioni di uomini videro per l’ultima volta il loro continente, la terra natia. Un viaggio di sola andata verso la schiavitù. Il Castello di Cape Coast fu costruito nei primi anni del 1600 come sede della Compagnia delle Indie e più tardi fu ampliato per diventare una delle “prigioni” utilizzate nella tratta atlantica degli schiavi africani, sulla Costa d’ Or, tristemente nota come Costa degli Schiavi.

Oggi è un luogo della memoria, ospita il Museo storico dell’Africa occidentale. Nel 1979 è stato dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Nel 2019 ricorre il 400° anniversario da quando salparono le prime navi e il Ghana, che fu uno dei principali paesi di partenza per la tratta degli schiavi tra il XV e il XVIII secolo, ha organizzato una serie di eventi per commemorare l’arrivo del primo bastimento in Virginia e istituito l’ “Anno del ritorno” invitando i discendenti a rivedere la propria terra d’origine.

Quando esce dalla fortezza di Cape Coast, Roxanne Caleb, una dei tanti afroamericani che hanno raccolto l’invito, ha gli occhi gonfi di pianto: “Non riesco ancora a immaginare un essere umano che tratta un altro come un topo”. Per Sampson Nii Addy, ufficiale della prigione di polizia di Montgomery in Alabama, questa visita con la sua famiglia è stata “educativa”. “Penso che tutte le persone di colore dovrebbero venire qui per conoscere la storia e imparare da essa”, dice. Il Ghana, una delle democrazie più stabili del continente africano, sta cercando di incoraggiare gli afroamericani a scoprire le loro origini nella speranza che qualcuno decida di stabilirsi definitivamente. Nel 2009, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva visitato il Cape Coast Fort con tutta la sua famiglia, descrivendo il posto come un luogo di “profonda tristezza”.

Il Ghana, stretto nel golfo di Guinea fra Costa d’Avorio, Togo e Burkina Faso, è da tempo uno dei paesi più sicuri dell’Africa occidentale, ma ha dovuto aspettare qualche tempo per beneficiare di una crescita all’altezza delle aspettative create dalla stabilità politica. Una prima espansione è avvenuta fra gli anni Novanta e Duemila grazie alla scoperta di ricchi giacimenti di petrolio: fra 2005 e 2013 il PIL è diventato cinque volte più grande, passando da 10 a 47 miliardi di dollari, per poi contrarsi a causa del crollo del prezzo del petrolio. Oggi le cose vanno meglio, soprattutto grazie alla ripresa del petrolio, ma è arrivata la parte difficile.

«Dopo il primo boom, un’espansione eccessiva della spesa pubblica e le scadenze di alcuni prestiti hanno portato il paese a un buco notevole al momento del crollo dei prezzi del petrolio», ha scritto il New York Times. L’obiettivo delle istituzioni ghanesi è impedire che succeda di nuovo, diversificando gli investimenti per evitare di essere troppo dipendenti dal petrolio, come già stanno facendo da anni le monarchie del Golfo. Qualcosa si sta muovendo, per esempio nel settore dell’agricoltura.

La Banca Mondiale, la principale organizzazione che si occupa di lotta alla povertà, ha stimato che il settore agricolo del Ghana «ha il potenziale per guidare un’economia sempre più diversificata». Un settore in continua espansione è quello del cacao, che cresce molto bene nel fertile entroterra del paese. La Niche Cocoa, una grossa azienda che processa il cacao per produrre burro e cioccolato, negli ultimi due anni ha raddoppiato la capacità produttiva del suo stabilimento alla periferia di Accra, la capitale del paese, quest’anno assumerà un centinaio di dipendenti e ha già esaurito gli ordini che può evadere entro il 2018.

Per ottenere la cosiddetta “stabilizzazione economica” invocata dagli economisti, però, il Ghana dovrebbe fare molto di più. La dipendenza da pochi settori economici, che oltretutto creano lavoro poco qualificato e sono dipendenti dalle fluttuazioni del mercato globale, è ancora molto forte. Nonostante il tasso di disoccupazione sia bassissimo, intorno al 6 per cento, lo stipendio medio è di circa 93 euro e un occupato su cinque vive in contesti di povertà. La Banca Mondiale suggerisce ad esempio di concentrarsi sulla tecnologia applicata all’agricoltura, sia per formare una classe di lavoratori più qualificati – cosa che a sua volta rafforzerebbe lo sviluppo della classe media, attivando un circolo virtuoso – sia per combattere gli effetti del cambiamento climatico.

Nel suo più recente discorso sullo stato del paese, il presidente Nana Akufo-Addo ha definito il settore agricolo «la spina dorsale» dello sviluppo economico del Ghana, e ha predetto che spingerà il paese verso una progressiva industrializzazione

Espresso on line

Benvenuti in Ghana, simbolo dell’Africa che non ti aspetti

Pace, democrazia, un’economia che cresce in fretta e la maggioranza cristiana che convive fianco a fianco con la minoranza islamica 
e con quella animista. Nel paese non mancano certo i problemi, ma dopo anni difficili è tornata la speranza

di Francesca Giommi –

Oggi il Ghana è la seconda economia dell’Africa occidentale, soprattutto grazie alle esportazioni, e la Borsa di Accra inanella record (a gennaio ha fatto un più 19 per cento).

Non male per un Paese che negli anni Ottanta era paralizzato dalla fame dopo una serie di golpe militari, mentre oggi sembra un modello di pacifica democrazia, con libere elezioni che si susseguono dal 1992 fornendo una salutare alternanza tra i due partiti maggioritari, il New Patriotic Party (Npp, di centrodestra) e il National Democratic Congress (Ndc, socialdemocratico). Alle ultime presidenziali – che si sono svolte in tutta regolarità un anno e mezzo fa – ha vinto Nana Akufo-Addo, vecchio leone del Npp e già ministro degli Esteri. È stato lui quindi a guidare i festeggiamenti per i sessant’anni d’indipendenza dalla Gran Bretagna, trionfalmente celebrati in tutto il Paese con orgoglio e senso di appartenenza: il Ghana è stato il primo Stato africano a ottenerla, il 6 marzo del 1957; gli altri sono arrivati dopo.

Anche le questioni religiose – che altrove, in Africa, sono al centro di conflitti feroci – qui non portano a scontri da molto tempo: la maggioranza cristiana (più di due terzi della popolazione) convive fianco a fianco con la minoranza islamica (circa il 17-18 per cento) e con quella animista (5 per cento). Ultimamente la discussione più accanita, per capirci, è stata quella per il rumore che fanno i muezzin quando chiamano a raccolta i fedeli alla moschea. Il governo ha suggerito agli imam di passare alla tecnologia, sostituendo il megafono con una convocazione via WhatsApp. Il capo della moschea di Fadama ha replicato che non tutti i musulmani sono muniti di smartphone collegato a Internet. E la questione è finita lì.
Per tutto questo – pace, democrazia, crescita economica, convivenza interetnica e interreligiosa, scolarizzazione primaria che ha raggiunto il 90 per cento – il Ghana è oggi un’eccezione positiva in un continente che, dopo le promesse di un decennio fa, stenta ancora ad ad uscire da guerre, carestie, povertà.

Poi, naturalmente, anche in Ghana i problemi non mancano. Molti giovani, ad esempio, se ne vanno dal Paese, o almeno ci provano. Solo in Italia ne arrivano circa 4-5000 ogni anno, in cerca di fortuna, sfidando le insidie del Mediterraneo.
I motivi dell’emigrazione sono da ricercare nella cronica mancanza di prospettive occupazionali (secondo la Banca mondiale il 48 per cento dei giovani ghanesi tra i 15 e i 24 anni non ha un’occupazione regolare); nel gap abissale tra l’arretratezza della popolazione rurale e quella urbana, sempre più tecnologica e globalizzata; nell’aumento demografico esponenziale, con tutti i problemi che ne derivano.

A questo si aggiungono il forte indebitamento del Paese, lo scarso sviluppo dell’industria e soprattutto l’iniqua distribuzione delle risorse, che abbondano – petrolio, cacao, legnami pregiati, pietre preziose, pesce e frutta tropicale – ma che sono saldamente in mano a poche multinazionali (nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi offshore c’è anche il nostro Eni).

L’urbanizzazione, in crescita a ritmi vertiginosi, da una parte conduce al progresso economico-commerciale, ma dall’altra crea nuove sacche di povertà estrema. E una massa di diseredati che si riversa negli slum in condizioni al di sotto della soglia di sussistenza. Tra questi, emblematico è il caso di Agbogbloshie, sobborgo di Accra comunemente ribattezzato “Sodoma e Gomorra”, dove vivono 80 mila persone: manca l’acqua, circolano droghe e ogni altra sorta di commercio illecito e prostituzione e guerra tra bande sono all’ordine del giorno. Agbogbloshie è tristemente noto anche per essere la più grande discarica di rifiuti tecnologici di tutta l’Africa: qui computer, cellulari, stampanti e altri device arrivano illegalmente o sotto forma di donazioni dagli Usa e dall’Europa (con partenze anche dai porti di Genova e La Spezia) e vengono smontati a mani nude o bruciati per recuperarne i componenti, sprigionando fumi tossici, piombo e metalli pesanti.
 Eppure anche la questione della tecnologia ha due facce. Perché, se da un lato produce orrori come la discarica di Agbogbloshie, dall’altro consente al Paese una diffusione ormai capillare di Internet: oggi sono circa 8 milioni i ghanesi connessi alla Rete, contro i 30 mila del Duemila.
È questo uno dei fattori che potrebbe consentire all’anglofono Ghana di diventare davvero il modello per il rinascimento africano. Ma anche qui le contraddizioni non mancano: basta pensare che 7,3 milioni di ghanesi vivono ancora senza elettricità, nonostante le risorse per produrla non manchino (la diga di Akosombo produce grandi quantità di energia idroelettrica, che però viene in gran parte venduta ai vicini Togo e Benin o riservata alle industrie di alluminio, anziché alla popolazione).
 Intanto i ghanesi sognano e guardano il cielo, dove è stato inviato il primo satellite nazionale, mandato in orbita nel luglio 2017, il Ghana-sat1, orgoglio della nazione. Sviluppato dall’All Nations University di Koforidua, con la collaborazione dell’ente spaziale giapponese, sarà utilizzato tra l’altro per mappare la costa, sempre più minacciata dall’erosione causata dall’estrazione della sabbia e dall’uso sregolato del legno di mangrovia.

Le miniere d’oro in Ghana fra sfruttamento legale e illegale: ricchezze minerarie e povertà sociale

Da missionidonbosco.org

2019

Primo Paese dell’Africa sub-sahariana ad essere stato colonizzato dagli europei, ricco di immense miniere aurifere, il Ghana fu inizialmente sfruttato dai Portoghesi a cui seguirono, in maniera definitiva, gli Inglesi, che ne fecero la loro base per il traffico degli schiavi.
Il Ghana è attualmente il più importante fornitore d’oro del mondo e, insieme al Sudafrica, il maggior estrattore.
L’estrazione ed il commercio aurifero sono gestiti ufficialmente dalle multinazionali che pagano quote irrisorie allo stato del Ghana e hanno in concessione decine di migliaia di chilometri di territorio. Ovviamente i danni ambientali sono gravissimi: deforestazione e avvelenamento delle falde acquifere non sono che le conseguenze più evidenti dello sfruttamento indiscriminato delle risorse minerarie, che ha di fatto spazzato via l’attività agricola nelle aree interessate. Questo fenomeno ha contribuito più di ogni altro alla nascita delle miniere illegali,luoghi pericolosi e insalubri gestiti da personaggi senza scrupoli che impiegano gli ex contadini offrendo loro paghe da fame e nessuna misura di sicurezza, oltre a sfruttare come forza lavoro anche un’altissima percentuale di minori.

Da L’Indro. L’approfondimento quotidiano indipendente

Ghana e Costa d’Avorio: via alla rivoluzione del cacao

I produttori di cacao si ribellano alle multinazionali occidentali: sospese le esportazioni programmate per il 2020/2021

Senza preavviso, due giorni fa, i produttori di cacao della Costa d’Avorio e del Ghana hanno deciso di sospendere le esportazioni programmate per il2020/2021 con l’obiettivo di rivendicare una migliore assegnazione dei prezzi di vendita sul mercato internazionale. La notizia è stata confermata da Joseph Boahen, Direttore della Ghana Cocoa Board, l’associazione coltivatori di cacao del Ghana.

La richiesta della revisione dei prezzi di acquisto del cacao all’ingrosso può sembrare radicale, ma tiene conto delle perdite subite dai piccoli agricoltori negli ultimi vent’anni e del costo finale dei prodotti alimentari derivati dal cacao, che sono la fortuna delle multinazionali quali la Ferrero. I nuovi prezzi rivendicati dai coltivatori si aggirano attorno ai 2.300 euro alla tonnellata di prodotto non lavorato. Attualmente il mercato internazionale stabilisce un prezzo medio di 1.060 euro a tonnellata.

Chi decide i prezzi sul mercato internazionale? Otto multinazionali occidentali e due asiatiche. Tra queste spicca al secondo posto la Ferrero Group con vendite nette, registrate nel 2018, pari a 12,39 miliardi di dollari. Le due multinazionali asiatiche sono la Meiji Co Ltd (9,66 miliardi di dollari registrati nel 2018) e la Ezaki Glico Co Ltd (3,32 miliardi di dollari).

All’interno della top ten delle multinazionali del cacao le prime sei influenzano le decisioni del cartello. Tre multinazionali americane: Mars Wrigley (18 miliardi di dollari di vendite nel 2018), la Mondelez International (11,79 miliardi) e la Hershei Co (7,78 miliardi di dollari). Due europee: la Ferrero e la svizzera Nestlé (6,14 miliardi di dollari) e la giapponese Meiji Co Ltd. (dati 2019 forniti dalla International Cocoa Oranisation).

«La produzione di cioccolato è un business fiorente, in cui le grandi aziende fanno profitti alti. Mentre queste aziende sono in competizione per le quote di mercato sempre maggiori e profitti più alti, milioni di coltivatori di cacao ottengono sempre meno ricavi. All’interno della catena del valore aggiunto globale, la maggior parte del guadagno avviene dopo che i chicchi hanno raggiunto il Nord del mondo. Allo stesso tempo, molti coltivatori di cacao e i lavoratori del Sud del mondo devono tirare avanti con meno di 1,25 dollari al giorno, il che significa vivere una vita al di sotto della soglia di povertà assoluta. I coltivatori di cacao oggi ricevono circa il 6% del prezzo che i consumatori dei Paesi ricchi pagano per il cioccolato. Negli anni 80 la loro quota era quasi tre volte più alta, vale a dire il 16%», spiegano gli attivisti della Campagna Europea per il Cioccolato Equo, attiva fino al 2015, a cui molte associazioni e Ong europee hanno aderito, tra le quali la Ong italiane COSPE.

L’interruzione delle vendite di cacao grezzo, decisa dai coltivatori ivoriani e ghaneani, rappresenta una vera e propria rivoluzione. Una sfida dalle portate storiche per le multinazionali del cacao, come fa notare Kanga Koffi, Presidente della National Association of Producers of Ivory Cost. Il blocco delle vendite è solo il primo atto di una offensiva economica del produttori africani di cacao che si riuniranno ad Abidjan (Costa d’Avorio) il prossimo 3 luglio per programmare nuove azioni contro le 10 multinazionali occidentali e asiatiche.
Per controbilanciare le perdite delle mancate vendite, il Governo ivoriano ha stanziato 58 milioni di euro anche se attorno a questo finanziamento è sorta già dubbi di trasparenza.

«Mentre i profitti delle aziende multinazionali del cioccolato sono aumentati dal 1980, il prezzo del mercato mondiale per i semi di cacao è diminuito della metà (al netto dell’inflazione). Un’altra parte del problema è che gli agricoltori coltivatori di cacao, a causa di strutture commerciali locali, tasse e della qualità dei semi, ricevono solo una parte del prezzo del mercato mondiale dei chicchi. Ad esempio, gli agricoltori in Costa d’Avorio negli ultimi dieci anni ottenevano solo dal 40 al 50% del prezzo del mercato mondiale per i loro semi. Gli agricoltori devono vendere il loro cacao a prezzi dettati dagli intermediari», sostengono da Inkota. .
L’incostanza del prezzo, insieme alla crescita dei costi di produzione, prosegue la relazione di Inkota, «comportano una grande instabilità economica e l’impoverimento di milioni di contadini del cacao. Nonostante le previsioni annuncino una crescita della richiesta di cacao di circa il 20% nei prossimi anni, e dei redditi delle aziende di cioccolato, molti contadini non riescono a coprire i loro costi di vita. A causa dei redditi molto bassi e della mancanza di informazione sugli sviluppi dei mercati, i contadini di cacao e le loro famiglie sono i perdenti dell’industria lucrativa del cacao e del cioccolato.

I bassi redditi dei contadini comportano problemi seri in ambiti sociali e ambientali. A causa delle mancate fonti economiche, essi non possono investire nel mantenimento delle loro fattorie, tagliano i salari dei loro lavoratori, forniscono condizioni inadeguate a questi ultimi e nei casi peggiori ricorrono al lavoro infantile. Dovendo incrementare i loro redditi, coltivano di più, non considerando, però, la sostenibilità agricola, ecologica e ambientale».

L’iniziativa congiunta delle associazioni di produttori ivoriani e ghaneani rappresenta anche una novità in termini di relazioni internazionali tra acquirenti e produttori. Fino ad ora, i 10 magnati del cioccolato, hanno tratto enorme profitto e potere contrattuale dal fatto che gli agricoltori africani raramente sono organizzati tra loro, e spesso non comprendono le tendenze dei prezzi sul mercato internazionale. Ora la musica è cambiata, e la rivincita dei coltivatori africani arriva proprio dai due big della produzione africana di cacao: la Costa d’Avorio e il Ghana rappresentano il 60% della produzione mondiale.

Alcuni economisti ivoriani salutano positivamente l’iniziativa, e auspicano che le associazioni di produttori, assieme al Governo, riescano a fare il passo successivo: la lavorazione del prodotto finito nei rispettivi Paese, anche con joint venture con i 10 big mondiali del cioccolato, e che i governi ivoriano e ghaneano mettano fine allo spaventoso sfruttamento del lavoro minorile nelle piantagioni di cacao. Non basta intentare causa contro la Mars o la Nestlé, accusate di finanziare il lavoro minorile in Africa Occidentale. Occorre rafforzare il codice del lavoro e la protezione infantile e stroncare il fenomeno agendo anche sui complici africani delle multinazionali straniere. Secondo uno studio della Tulane University nella sola Costa d’Avorio, oltre 4.000 bambini in età scolastica sono costretti a lavorare nelle piantagioni di cacao. «Alcuni bambini vengono venduti dai genitori disperati a causa della povertà ai trafficanti mentre altri vengono rapiti. I trafficanti, poi, vendono i bambini ai proprietari delle piantagioni di cacao. I bambini sono costretti a vivere in luoghi isolati, vengono minacciati con percosse, di notte restano rinchiusi in modo che non scappino e sono costretti a lavorare per lunghe ore, anche quando sono malati, secondo le denunce mosse alle aziende. I bambini trasportano sacchi così grandi e pesanti per loro da andare incontro a gravi danni fisici. L’età degli schiavi varia dagli 11 ai 16 anni ma ci possono essere anche bambini di età inferiore ai 10 anni», spiegano gli esperti italiani.
Questo è il cioccolato che arriva sulle tavole occidentali.

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