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Decameron

Il Decameron è la più importante delle opere di Giovanni Boccaccio. È una raccolta di cento novelle inquadrate in una cornice narrativa. L’opera viene scritta nel periodo terribile della peste a Firenze, tra il 1348 e il 1353. L’autore continua poi un lavoro di revisione fino al 1370 circa, epoca a cui risale la stesura definitiva autografa.

Il titolo deriva dalla lingua greca e significa Dieci giornate e si riferisce alla struttura narrativa del testo.

Il Decameron racconta che durante la peste del 1348, a Firenze, un’«onesta brigata» composta da sette ragazze e tre ragazzi decide di scappare dalla città e si rifugia in una villa presso Fiesole per sfuggire al contagio. Tra gli altri passatempi, i giovani raccontano per dieci giorni una novella a testa. Ogni giorno uno di loro stabilisce il tema delle novelle che verranno narrate; solo nella prima e ultima giornata il tema è libero.

Narratori e temi delle giornate

La struttura a cornice

Boccaccio introduce la sua opera presentando la situazione di Firenze. Quindi introduce la vicenda dei dieci giovani che decidono di fuggire; questa vicenda fa da cornice ai cento racconti narrati dai giovani.

Struttura del Decameron

I protagonisti dell’opera di Boccaccio, tramite la parola e il racconto, ricreano artisticamente un mondo nuovo da contrapporre a quello in cui vivono, devastato dalla pestilenza che incombe sulla città e su tutto il mondo in quegli anni.

Il novellare di Boccaccio

Boccaccio crea una struttura coerente sia da un punto di vista formale che di contenuto. Tra la prima e l’ultima novella, che rappresentano una il male e l’altra il bene, è ritratta una variopinta umanità che si colloca tra le due polarità.

Il male è rappresentato dalla figura di Ser Ciappelletto nella prima novella della prima giornata, il bene è rappresentato da Griselda, nell’ultima novella dell’ultima giornata. In questo modo Boccaccio realizza un percorso ascensionale, dal male al bene.

Nelle diverse novelle Boccaccio percorre diversi temi e presenta anche le sue riflessioni sulle finalità e sui modi del novellare.

Nelle novelle Boccaccio racconta l’intera gamma delle esperienze umane, presenta uno spaccato della varia umanità del Basso medioevo con un’attenzione particolare alla borghesia, classe sociale a cui anche lui appartiene. In essa egli alterna vari toni, diversi temi e variopinti personaggi.

I temi affrontati sono:

  • Fortuna
  • Intelligenza
  • Amore
  • Comicità

Fortuna

La fortuna è intesa come sorte capricciosa, perché è lei che determina il successo o il fallimento di ogni iniziativa; all’uomo non rimane che prenderne atto e mettere a frutto tutte le sue risorse cercando così di raggiungere gli obiettivi che si pone.

Nelle novelle emerge chiaro il pensiero che abbandonarsi irrazionalmente alle proprie passioni porta effetti negativi.

Intelligenza

Intelligenza, audacia e spirito di iniziativa sono le virtù a cui l’uomo deve affidarsi per poter interagire positivamente con la sorte. Anche se la fortuna rimane comunque arbitra ultima di ogni esito, arguzia impegno e coraggio aiutano a risolvere anche la malasorte. Si precisa che Boccaccio non cerca mai di proporre modelli di azione, ma si limita solo ad osservare, a catalogare le molteplici e contraddittorie sfaccettature delle vicende umane.

Amore

L’uomo per sua natura aspira alla felicità; tale felicità spesso si identifica con il possesso della persona amata. La sorte talvolta è favorevole e altre volte è contraria. L’amore accende sempre lo spirito di iniziativa, sia nell’uomo che nella donna. Anche se non sempre tali iniziative hanno esiti fortunati, l’intraprendenza è dote necessaria all’uomo per risolvere qualsiasi situazione.

Il tema della sessualità è spesso presente. L’autore però sottolinea come la sessualità sia solo uno degli aspetti della passione amorosa, il più basso e il più rozzo.

Anche Boccaccio come gli stilnovisti, mostra che l’amore è una forza che conduce l’uomo a raffinarsi e a innalzarsi moralmente al di sopra di sé stesso.

Comicità

Per Boccaccio la comicità, la risata, è uno degli ingredienti indispensabili ad una vita felice, importante quanto l’amore. Le giornate sesta settima e ottava offrono una serie di novelle, che mostrano le infinite sfaccettature del comico. La comicità assume spesso i tratti della beffa, beffa che viene ordita a volte per ottenere un vantaggio concreto, altre solo per mettere alla prova l’ingegno del beffatore di fronte all’ingenuità del beffato.

La società del Decameron

Col Decameron Boccaccio mette in scena la società del tempo in tutte le sue contraddittorie componenti economiche e sociali. Con grande sagacia Boccaccio ci mostra pregi e difetti dei vari ceti che popolano la sua epoca.

Nel suo osservare, Boccaccio sembra anche proporre un nuovo modello di civiltà, che si ponga in armonico equilibrio fra lo spirito pratico e scaltro della borghesia e quello liberale e magnanimo della nobiltà.

Non risparmia neppure il clero, del quale presenta abitudini e pratiche che si discostano dagli ideali spirituali a cui sarebbe chiamato.

Lo scopo dell’opera

Nel proemio Boccaccio dichiara il suo intento: vuole offrire al lettore sia distrazione e svago che consigli pratici su cosa utile evitare.

«diletto di sollazzevoli cose e utile consiglio su ciò che sia da fuggire e da seguitare»

Boccaccio, proemio Decameron

Il  pubblico del Decameron è identificato da Boccaccio nelle donne.

Dalle novelle il suo progetto educativo nel quale rinuncia a proporre rigide regole di comportamento per mostrare invece quanto sia necessario osservare lucidamente, e con spirito critico, questo mondo contraddittorio e mutevole in modo da trovare strategie e vie d’uscita.

La conclusione

L’opera si conclude con parole di ringraziamento.

Nobilissime giovani, a consolazion delle quali io a cosí lunga fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la divina grazia, sí come io avviso, per li vostri pietosi prieghi, non giá per li miei meriti, quello compiutamente aver fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare; per la qual cosa, Iddio primieramente ed appresso voi ringraziando, è da dare alla penna ed alla man faticata riposo. 
Io , Giovanni Boccaccio, concludo il mio lavoro rivolgendomi a voi,  nobilissime  giovani, dicendo che ho scritto per voi, con l’aiuto della grazia divina,  un’opera che mi è costata una grande fatica.
Sicuramente mi hanno giovato, nel portare a termine un lavoro così impegnativo, le vostre preghiere.
Ringrazio, quindi, prima di tutto Dio e poi tutte voi, prima di dar riposo alla penna e alla mano.

Decameron – Proemio

Il testo è parafrasato e talvolta semplificato per essere accessibile a tutti.

Comincia il libro chiamato Decameron, nel quale sono raccolte cento novelle narrate in dieci giorni da sette donne e da tre giovani uomini.

È caratteristica degli esseri umani avere pietà degli afflitti: soprattutto di coloro che nella vita hanno, a loro volta, ricevuto conforto e compassione da alcuni. Io, Giovanni Boccaccio, sono uno di quelli.

Infatti, da quando ero molto giovane ad oggi sono stato innamorato di una donna di stirpe reale, Maria d’Aquino o Fiammetta. Io mi sono innamorato di lei nonostante io sia di umile origine: infatti sono figlio di un mercante.

Questa situazione ha fatto nascere in me una continua ansia, che non mi dava mai tregua, non per crudeltà della donna amata, ma per un’angoscia che tormentava la mia mente. Mi hanno dato sollievo i ragionamenti e le consolazioni di alcuni amici, che mi hanno impedito di morire.

Ma dal momento che tutte le cose del mondo sono destinate a finire, come piace a Dio, il mio immenso amore, pian piano, diminuì da solo. E fu così che nella mia mente il dolore sparì e rimase solo il piacere e la dolcezza di questo amore.

Ma, cessata la pena, mi rimane ancora il ricordo del sostegno ricevuto dagli amici e del sollievo che mi procurarono. Questo ricordo rimane in me e non passerà mai. Di questo sono ancora molto grato a loro e io donerò questa mia gratitudine alle donne leggiadre, più che agli uomini.

Infatti le donne, tengono spesso nascoste, nei loro cuori delicati, le fiamme dell’amore. Inoltre, spesso obbligate dalla volontà dei padri, delle madri, dei fratelli e dei mariti, trascorrono gran parte del tempo nello spazio limitato delle loro piccole camere, stando sedute quasi oziose, sole con i loro pensieri, che non sempre sono allegri.

E quando la loro mente è intristita da qualche malinconia d’amore, questa tristezza vi rimane a lungo, se non viene rimossa da nuovi pensieri.

Lo stesso invece non avviene negli uomini innamorati. Infatti essi hanno molti modi di alleggerire i pensieri e le malinconie d’amore: possono andare a caccia, pescare, cavalcare, giocare, dedicarsi al commercio. Tutte queste sono occupazioni che li distraggono dal noioso pensiero dell’amore, fino a quando esso non diminuisce naturalmente come è accaduto a me.

Per questo io voglio narrare queste mie cento novelle, per porre riparo al torto che la sorte fa alle donne. Le cento novelle sono raccontate in dieci giorni da una allegra brigata composta da dieci giovani, sette donne e tre uomini. I racconti sono stati fatti durante la pestilenza che ha provocato tante morti. Non ci sono solo le novelle ma si trovano qui anche alcune canzoni, cantate dalle donne per divertimento.

In queste novelle sono raccontate diverse storie casi d’amore, ambientate sia nei tempi moderni che in quelli antichi.

Le donne, leggendo queste novelle, potranno divertirsi, distrarsi e ricavarne qualche utile consiglio su cosa sia meglio fuggire, finché non si placano le pene d’amore. E, se questo accadrà, invito le donne a ringraziare Amore, che liberandomi dalla sofferenza, ha permesso che mi dedicassi ai loro piaceri.

Introduzione

Versione semplificata, sintetizzata e parafrasata per essere comprensibile a tutti.

Situazione di Firenze

Dico, dunque, era l’anno 1348, quando nella città di Firenze e nelle altre bellissime città d’Italia, giunse la terribile pestilenza, che, per opera degli astri celesti o per la giusta ira di Dio, fu mandata come punizione sui mortali a causa delle nostre opere inique. Incominciata alcuni anni prima in Oriente, senza fermarsi, la pestilenza si spostò, ampliandosi, verso Occidente.

A nulla valsero la prudenza e i provvedimenti presi per motivi sanitari,: fu pulita dalle immondizie tutta la città, ad opera di ufficiali all’uopo comandati e agli ammalati fu proibito di entrare in città. A nulla valsero neppure le preghiere rivolte a Dio da persone devote, né servirono le processioni.

All’inizio della primavera la pestilenza cominciò a dimostrare i suoi terribili effetti. [ … ] Solo pochissimi guarivano, anzi, quasi tutti al terzo giorno dalla comparsa dei sintomi, morivano.

La peste passava dagli infermi ai sani, come fa il fuoco con le cose secche. Il contagio si diffondeva non solo se si parlava o si stava vicino agli infermi, ma anche se si toccavano i panni o qualsiasi cosa che era stata da loro usata.

E accadde un’altra cosa imprevedibile in questa pestilenza: essa attaccava non solo gli uomini tra loro, ma passava anche agli animali, uccidendoli in brevissimo tempo. Un giorno vidi con i miei occhi che erano stati gettati in mezzo alla strada gli stracci di un pover’uomo morto di peste. Due maiali li afferrarono e vi si avvolsero. Dopo appena un’ora i porci caddero a terra morti. Per questo i vivi pensarono bene di evitare gli infermi e le loro cose, sperando, in tal modo, di acquistare salute.

Alcuni ritenevano che vivere con moderazione, senza cose superflue, li avrebbe protetti dalla peste. Si riunivano in gruppetti e vivevano isolati nelle case in cui non c’era alcun malato, mangiando cibi e bevendo vini leggeri e delicati, evitando ogni lussuria e non parlando né di morti, né di infermi.

Altri, al contrario preferivano bere molto e godere, mangiare smodatamente, beffandosi di ogni cura e medicina, andando in giro per taverne, facendo solo ciò che arrecasse loro piacere. Certi che non sarebbero vissuti a lungo, abbandonavano le loro case. Per questo molte case erano state abbandonate ed occupate da estranei e da ammalati.

In tanta miseria, nella città le leggi non avevano più autorità perché i ministri o gli esecutori di esse o erano morti o erano malati. Per questo non potevano attendere ai propri doveri. E tutti facevano quello che volevano, senza alcun rispetto delle leggi.

Altri, ancora, seguivano una via di mezzo tra i due estremi.

Bevevano e mangiavano moderatamente, usavano le cose, senza rinchiudersi, andavano in giro portando nelle mani fiori e spezie odorose, avvicinandole continuamente al naso, per vincere il puzzo dei morti, dei malati e delle medicine.

Altri, ancora, ritenevano che la cosa migliore fosse abbandonare la propria città ed andare in campagna, in periferia, pensando che la peste colpisse solo chi abitava in città.

Ormai ogni cittadino evitava l’altro e non ci si prendeva più cura dei parenti, uomini e donne. Un fratello abbandonava suo fratello, la moglie abbandonava il marito, i padri e le madri, cosa terribile, abbandonavano i figli, quasi come se non fossero propri, e si rifiutavano di accudirli. Per questo chi si ammalava non aveva alcun aiuto. Restava solo la carità degli amici, in verità molto pochi, e l’avidità dei servitori. Questi non facevano altro che porgere agli ammalati alcune cose da loro richieste e stare a guardare quando morivano. Spesso poi questi perdevano anche sé stessi insieme con il guadagno, perché morivano per il contagio.

Per l’abbandono da parte dei parenti e degli amici, si diffuse una consuetudine mai udita prima. Quando una donna, anche se molto bella, si ammalava, prendeva a suo servizio un uomo. A lui si affidava per tutte le cure e le incombenze, anche le più intime, che la sua malattia richiedeva. Questo comportamento portò le donne sopravvissute ad acquisire comportamenti di discutibile moralità.

E siccome morirono tantissime persone, quelle che sopravvissero, fecero cose contrarie agli onesti costumi di prima. Era usanza che i parenti e i vicini di casa del morto si riunissero e piangessero. Era solito venire anche un rappresentante del clero che portava il morto in chiesa. Man mano che la pestilenza divenne più feroce, queste usanze cambiarono. Molti morivano da soli, senza alcun conforto e non potevano essere trasportati nella chiesa che avevano scelto. Venivano, invece, prelevati da persone pagate, chiamate “beccamorti”, che li portavano nella chiesa più vicina. Lì, senza solenni rituali i cadaveri venivano seppelliti in qualche tomba ancora vuota.

La gente umile stava ancora peggio. Poiché non aveva potuto lasciare la propria casa abitata da molte persone, venivano contagiati rapidamente, non avevano alcun aiuto e tutti morivano.

I vicini, temendo per sé, gettavano i corpi dei morti o degli infermi nella strada. I vicini tiravano fuori i morti, li ponevano davanti agli usci e facevano venire le bare. Ben presto le bare furono insufficienti e allora misero molti cadaveri in una sola bara. Nei cimiteri venivano messi anche
sei o otto morti sotto una stessa croce, senza che essi fossero onorati da alcuna lacrima, senza candele, senza conforto. I morti venivano trattati come capre.

Man mano che la moltitudine dei cadaveri aumentava, non fu possibile seppellirli in terra sacra, nelle chiese e quindi si scavarono delle grandissime fosse comuni dove si misero i morti a centinaia.

Anche nella periferia della città le cose non andarono meglio: i poveri, con le loro famiglie, morivano come bestie, abbandonando i sani costumi antichi, lasciando i loro animali, buoi, asini, pecore, capre, porci, polli e cani. Gli animali andavano in giro per la campagna, nutrendosi a sazietà, senza controllo, e, a sera, ritornavano a casa spontaneamente.

Dunque, ritornando alla città di Firenze, si può dire che, tra il marzo e il luglio del 1348, morirono più di centomila creature umane. Quanti palazzi e belle case, in precedenza pieni di nobili famiglie, rimasero vuoti!

Introduzione alla narrazione

Un martedì mattina, [ … ] nella Chiesa di Santa Maria Novella [ … ]si ritrovarono sette donne di età compresa tra i diciotto e i ventotto anni. Queste giovani donne erano unite da amicizia o da parentela; erano tutte di sangue nobile, molto belle ed oneste. Non posso dire i loro nomi perché le cose da loro raccontate, potrebbero metterle in difficoltà e attirare loro delle critiche. Però, per poter comprendere chi racconterà le novelle nei vari giorni, darò loro un nome di fantasia.

Chiamerò la prima Pampinea, che è la più grande di età, la seconda Fiammetta, la terza Filomena, la quarta Emilia, la quinta Lauretta, la sesta Neifile, la settima, a ragione, Elissa.

Le fanciulle sono sette come i giorni della settimana, come i pianeti, come le virtù teologali e cardinali, come le Arti Liberali e sono le nuove Muse, ispiratrici di poesia. Le sette fanciulle, trovatesi lì per caso, dopo aver pregato a lungo, cominciarono a ragionare.

Iniziò a parlare Pampinea e disse:

“Donne mie care non offendiamo nessuno se troviamo un sistema che ci permetta di sopravvivere in questa difficile situazione. Ogni volta che penso a come viviamo, sto male. Infatti trascorriamo le giornate ascoltando i nomi di chi è morto o di chi sta per morire e pensando ai parenti che soffrono. Quando torniamo alle nostre case, vediamo solo ombre dei nostri cari defunti. A mio avviso è inutile continuare a stare qui, a piangere i morti e a correre il rischio di morire noi stesse per contagio. Penso invece che sarebbe opportuno che noi lasciassimo la città e ce ne andassimo a stare in campagna. Lì potremmo vivere in allegria, vivendo tutto il piacere possibile, in onestà. In campagna si sentono gli uccelli cantare, si vedono le verdi colline e le pianure, i campi ondeggiare come il mare e alberi di vario genere; si vede il cielo aperto, un paesaggio molto più bello rispetto a quello che vediamo se stiamo a guardare dalle mura vuote della nostra città. In campagna c’è un’aria più fresca e muoiono meno persone che in città, perché ci sono meno case e meno abitanti. Qui noi non lasciamo nessuno, perché i nostri sono tutti morti. Perciò credo che sia una buona idea quella di prendere le nostre cose e spostarci oggi in un luogo, domani in un altro, dove poter vivere in allegria e in festa, prendendo quello che questo tempo lugubre può offrire, prima che sopraggiunga la morte”.

Le altre donne approvarono l’idea di Pampinea e, desiderose di attuarlo, si misero a discutere. Filomena prudentemente disse:

“Donne, ricordatevi che siamo tutte femmine e le femmine, senza l’aiuto e il consiglio di un uomo, non sanno regolarsi. Siamo volubili, litigiose, sospettose, paurose, per cui temo che, se non ci procuriamo qualche altra guida, la nostra compagnia si scioglierà presto. Per questo è opportuno organizzarci, prima di cominciare”.

Elissa, allora, disse:

“È vero che gli uomini sono a guida delle donne. Senza di loro raramente le opere femminili giungono a buon fine. Ma come possiamo avere noi questi uomini? I nostri sono morti o sono sparsi qua e là, è impossibile ritrovarli. Prendere uomini sconosciuti non è opportuno sia per la nostra salute che per lo scandalo che ne seguirebbe”.

Mentre le donne così ragionavano, entrarono nella chiesa tre giovani belli e garbati, il più giovane dei quali non aveva meno di venticinque anni. I tre si chiamavano Panfilo, Filostrato e Dioneo.

Essi erano i fidanzati di tre delle sette donne che stavano lì discutendo e provarono una grande consolazione nel vedere che le loro amate stavano bene. Tra loro c’erano anche alcune che erano loro parenti.

Appena le donne li videro, Pampinea, sorridendo, disse “Ecco che la fortuna è favorevole ai nostri progetti e ci pone davanti giovani onesti e valorosi, che, se vorranno, ci faranno da guida”.

Neifile, arrossì fortemente, perché era una delle tre fanciulle amata da uno dei giovani; quindi disse:

“Pampinea, dobbiamo stare attente perché, dal momento che questi tre giovani sono innamorati di alcune di noi, anche se non facciamo niente di male, questo potrebbe provocare tensioni e malintesi tra noi”.

Disse allora Filomena:

“Io credo che se viviamo assieme onestamente, non abbiamo niente da rimproverarci. Se essi fossero disposti a venire, come ha detto Pampinea, sarebbe un colpo di fortuna“.

Le altre fanciulle, alle parole di Filomena tacquero e assentirono. Tutte d’accordo, decisero quindi di chiamare i giovani e di chiedere se volevano partecipare con loro a quell’impresa.

Pampinea quindi si avvicinò con un sorriso, spiegò il programma e chiese loro di accompagnarle con animo puro e fraterno.

I giovani inizialmente credettero che si trattasse di uno scherzo, poi, vedendo che la donna parlava sul serio, risposero, lieti, di essere pronti per la partenza.

Preparata, dunque, ogni cosa, il giorno seguente, le donne, con alcune delle loro domestiche, e i tre giovani, con i tre servi, si allontanarono dalla città per circa due miglia e giunsero al luogo prescelto.

Questo luogo era su una collinetta sul colle di Fiesole, sembra fosse la casa abitata da Giovanni Boccaccio. Lontano dalle strade, tra piante e alberelli, sulla cima del colle vi era un palazzo con un grande cortile nel mezzo, con logge, sale e camere, tutte bellissime. Le stanze erano ornate di dipinti che raffiguravano prati e giardini, fonti di acqua. Inoltre vi erano cantine piene di vini preziosi, che si addicevano più ad esperti bevitori che a sobrie ed oneste fanciulle.

La casa era pulita, con i letti fatti, ed era piena di fiori di stagione.

Dopo essersi accomodati, Dioneo, giovane pieno di spirito, disse:

“Donne, che, con tanto senno, ci avete guidati qui, non conoscendo le vostre intenzioni, vi dico subito le mie. Io voglio scherzare, ridere e cantare insieme con voi. Ma se non siete d’accordo io me ne torno nella città piena di tribolazioni”.

Pampinea, lieta, rispose:

“Dioneo, parli bene, noi qui vogliamo vivere festosamente, per questo siamo fuggiti dalle tristezze della città. Ma, poiché le cose senza ordine non possono durare, io ritengo necessario che venga designato un capo a cui noi tutti obbediamo. E affinché ciascuno provi il peso della responsabilità e affinché non vi sia nessuno che provi invidia, propongo questo: a ciascuno di noi si attribuisca, per un giorno, il comando della brigata. Propongo inoltre che tutti noi eleggiamo chi comanderà per primo. Il Capo dei giorni che seguiranno, sarà scelto ogni giorno, al tramonto, da colui che ha comandato in quella giornata”.

Queste parole piacquero molto a tutti, ed essi, ad una voce, elessero regina Pampinea. Filomena corse a raccogliere un ramo di alloro, ne fece una ghirlanda che pose in testa a Pampinea. La corona quindi rimase ad indicare chi deteneva il comando nelle varie giornate.

Pampinea, incoronata regina, comandò che tutti tacessero, poi assegnò alla servitù i vari incarichi.

[ … ]

Quando tornarono all’ora stabilita e si sistemarono nello spazio assegnato dalla Regina, trovarono che Parmeno aveva organizzato il pranzo.

Furono portate delicatissime vivande e vini finissimi e silenziosamente i tre servi servirono le tavole. Tutti mangiarono lietamente, scambiandosi piacevoli discorsi.

Finito il pranzo, la regina ordinò che fossero portati gli strumenti per suonare, ritenendo che le donne sapessero cantare ed anche gli uomini sapessero suonare e cantare.

Dioneo prese un liuto e Fiammetta una viola e cominciarono a suonare una musica, la Regina con le altre donne e i giovani, mandati i servi a mangiare, scelse una canzone e, con passo lento, cominciò a cantare.

Si continuò così fino all’ora di andare a dormire.

Allora, per ordine di Pampinea, i tre giovani si ritirarono nelle loro stanze, separate da quelle delle donne, e tutti si addormentarono in stanze piene di fiori.

Era appena passata l’ora nona (circa le diciotto) che la regina, svegliatasi, fece svegliare tutti dicendo che era nocivo il dormire troppo, di giorno.

Così se ne andarono in un praticello al riparo dal sole, mentre spirava un soave venticello. Come ordinò la regina. Si posero a sedere in circolo.

Pampinea, allora, disse:

“Come vedete, qui è bello stare e fare qualsiasi gioco, perché ci sono tavolette per giocare a dama o a scacchi … Ma io vi propongo di non giocare, perché nel gioco c’è chi gioca e chi sta a guardare, annoiandosi. Vi propongo invece di raccontare novelle. Questo può essere più gradito a tutta la compagnia, in quanto uno racconta e tutti gli altri ascoltano. In questo modo trascorreremo la parte più calda della giornata. Quando tutti avremo finito di raccontare la nostra novella, il sole sarà vicino al tramonto, il caldo sarà diminuito e noi potremo andare dove più desideriamo.

Se il programma vi piace, realizziamolo, altrimenti … che ciascuno faccia ciò che vuole”. Tutti, uomini e donne, approvarono “il novellare”.
La regina, allora, stabilì che, nella prima giornata il tema delle novelle da raccontare fosse libero. E, rivolta a Panfilo, gli dette il comando di narrare lui la prima novella.

Fonti

https://decameronapuntate.blogspot.com/

https://it.wikisource.org/wiki/Decameron/

https://library.weschool.com/

https://letteritaliana.weebly.com/