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L’uomo della sabbia, del 1815, è uno dei racconti più significativi di Hoffmann.

Il testo – di cui è stata omessa la prima parte – si configura come una lettera scritta da Nataniele, il protagonista che è anche la voce narrante, all’amico Lotario.

In essa il narratore racconta al destinatario un fatto inquietante che gli è capitato alcuni giorni prima: egli ha rivisto un personaggio terribile, legato alla sua infanzia, la cui immagine ha turbato la sua esistenza.

[…]

Mi sforzo di raccogliermi per raccontarti tranquillamente e pazientemente qualche cosa della mia infanzia, in modo che al tuo chiaro intelletto tutto si possa presentare con lucidità ed evidenza, con immagini luminose.

E mentre sto per incominciare sento te che ridi, e Clara che esclama:

– Tutte queste sono ragazzate! –.

Ridete, vi prego, ridete di cuore alle mie spalle!

Vi prego davvero; ma, per Dio, mi si rizzano i capelli in testa e, mentre vi supplico di ridere di me, mi par di essere sull’orlo della disperazione e della pazzia.

[…]

Ma ora ascoltate!

Fuori dell’ora di pranzo, io e i miei fratelli e le mie sorelle vedevamo raramente mio padre durante la giornata.

Può darsi che fosse molto occupato per il suo lavoro, ma dopo cena, che secondo una vecchia usanza ci riuniva già alle sette di sera, andavamo tutti insieme con la mamma nella camera di lavoro di nostro padre e ci sedevamo intorno a una tavola rotonda.

Il babbo fumava la pipa e beveva intanto un bel bicchiere di birra.

Spesso ci raccontava molte storie straordinarie e si entusiasmava tanto che lasciava spegnere la pipa; allora io avevo l’incarico di riaccendergliela con un pezzo di carta infiammata, e questo era senza dubbio lo spasso migliore della serata.

Talvolta ci dava anche da guardare le immagini di qualche libro, e lui stava sdraiato nella sua poltrona muto ed immobile mandando in giro grosse nuvole di fumo, sicché ben presto tutti quanti eravamo immersi in mezzo alla nebbia.

In quelle serate la mamma era molto triste e appena l’orologio batteva le nove, incominciava a dire:

– Su bambini, a letto, a letto! Viene l’Uomo della sabbia, l’ho bell’e visto –.

E davvero ogni volta sentivo qualcosa che saliva su per le scale con un passo lento e pesante, che rimbombava: non poteva essere altri che l’Uomo cattivo.

Una volta che quei passi lenti, quel rimbombo erano particolarmente orribili, chiesi alla mamma che ci portava via:

– Oh, mamma, chi è questo cattivo Uomo della sabbia, che ci fa sempre andare via dal babbo? Com’è fatto? –

Ma non c’è nessun Uomo cattivo, piccolo mio – rispose la mamma; – quando dico: “viene l’Uomo della sabbia”, vuol dire solo che vi è venuto il sonno e non potete tenere più gli occhi aperti, come se qualcuno vi avesse buttato la sabbia in viso.

La risposta della mamma non mi persuase; anzi, nel mio animo infantile si radicò l’idea che la mamma dicesse che l’Uomo cattivo non esisteva solo perché non avessimo paura di lui; l’avevo sempre sentito salire le scale.

Tutto curioso di sapere qualcosa di più preciso di questo Uomo della sabbia, e dei rapporti che aveva con noi bambini, chiesi finalmente alla vecchia, che faceva da balia alla mia sorellina più piccola, che razza di uomo fosse l’Uomo della sabbia.

– Ma, Tanielino – mi rispose – come mai non lo sai? È un uomo cattivo; viene dai bambini quando non vogliono andare a letto e getta loro pugni di sabbia negli occhi, e glieli fa cadere insanguinati fuori dalla testa; poi li mette in un sacco e li porta nella Mezza Luna per darli da mangiare ai suoi bambini.

Stanno tutti nel nido e hanno il becco a punta come le civette: così beccottano gli occhi dei bambini maleducati.

Dentro di me si formò così un quadro orribile di questo feroce Uomo della sabbia; e quando la sera sentivo il suo passo pesante su per le scale, tremavo dalla paura e dallo spavento.

La mamma non mi poteva levare altro di bocca che questo, balbettato fra le lacrime:

– L’Uomo della sabbia, l’Uomo della sabbia! –.

Poi scappavo subito nella camera a letto e per tutta la notte ero torturato dalla terribile apparizione dell’Uomo cattivo.

Ormai ero già abbastanza grandicello per comprendere che quello che mi aveva raccontato la bambinaia, dell’Uomo cattivo e del nido dei suoi bambini nella Mezza Luna, non poteva essere tutto vero; ma l’Uomo della sabbia era rimasto lo stesso per me uno spettro terribile ed ero preso dal terrore, dallo spavento, quando lo sentivo non solo salire su per le scale, ma aprire anche violentemente la porta di mio padre e penetrare nella sua stanza.

Talvolta restava a lungo senza venire; poi all’improvviso ritornava per parecchie sere di seguito.

Questa storia durò per anni interi ed io stesso non potei mai abituarmi a questi rumori paurosi.

L’immagine del feroce Uomo della sabbia non impallidì dentro di me, anzi la mia fantasia incominciò ad occuparsi sempre più di quello che poteva venire a fare da mio padre; ma un timore invincibile mi tratteneva dal chiedere a mio padre una spiegazione; con gli anni nasceva sempre più forte in me il desiderio di svelare da solo il mistero, e soprattutto di vedere coi miei occhi l’Uomo cattivo.

L’Uomo della sabbia mi aveva messo sulla via delle fantasie meravigliose, straordinarie, che così facilmente s’impossessano degli animi infantili.

Non c’era nulla che mi piacesse di più che ascoltare o leggere storie paurose di folletti, di streghe, di pollicini, e così via; ma in testa a tutti stava sempre l’Uomo della sabbia che non mi stancavo mai di disegnare nella figura più stravagante e repulsiva sugli armadi e sulle pareti col gesso o col carbone.

Quando ebbi compiuto dieci anni la mamma mi tolse dalla stanza dove dormivano gli altri fratelli, e mi mise in una cameretta che dava sul corridoio, vicino alla stanza di mio padre. Anche allora, quando l’orologio suonava le ore e lo sconosciuto si faceva sentire sulle scale di casa, dovevamo andarcene in fretta; stando nella mia cameretta, sentivo come entrava da mio padre, e poco dopo sembrava che per la casa si diffondesse un sottile vapore, con un profumo curioso.

Sempre più, assieme alla curiosità, cresceva il desiderio di fare la conoscenza dell’Uomo della sabbia.

Spesso, quando la mamma se n’era andata, scivolavo rapidamente dalla mia stanza nel corridoio, ma non potevo scoprire nulla, perché l’Uomo cattivo era regolarmente già scomparso dietro la porta, quando raggiungevo il posto dal quale lo avrei potuto vedere.

Finalmente, spinto da una smania irresistibile, decisi di nascondermi dentro la stanza di mio padre e di aspettare là dentro l’arrivo dell’uomo cattivo.

Una sera, dal silenzio di mio padre, dalla tristezza di mia madre, compresi che l’Uomo della sabbia sarebbe venuto; finsi perciò di essere molto stanco; già prima delle nove me ne andai dalla stanza e mi nascosi in un angolo del corridoio, vicino alla porta.

Udii scricchiolare la porta di casa; nell’androne un passo lento, pesante, rimbombante si diresse verso la scala.

La mamma mi passò in fretta davanti portando via gli altri bambini.

Adagio adagio apersi la porta dello studio di mio padre.

Come sempre sedeva immobile e silenzioso volgendo le spalle alla porta; non si accorse di nulla.

In un lampo fui dentro e mi nascosi dietro la tendina appesa davanti ad un armadio aperto, che stava accanto alla porta e nel quale erano appesi i vestiti di mio padre.

I passi rimbombavano sempre più vicini, sempre più vicini: nel corridoio si sentiva qualcuno che tossicchiava, trascinava i piedi e brontolava in un modo bizzarro.

Il cuore mi tremava dalla paura e dall’attesa.

Vicino, proprio vicino alla porta, un ultimo passo più pesante, un colpo forte sulla maniglia e la porta si spalancò con grande fracasso.

Vincendo il timore sporsi prudentemente il capo dalla tenda.

L’Uomo della sabbia stava in mezzo alla stanza, in piedi, davanti a mio padre; la luce della lampada lo colpiva in viso.

L’Uomo cattivo, il terribile Uomo della sabbia era il vecchio avvocato Coppelius, che talvolta veniva a pranzo da noi a mezzogiorno.

Ma la figura più orribile non mi avrebbe potuto incutere spavento più profondo di questo Coppelius.

Immaginati un uomo alto di statura e largo di spalle, con una grossa testa informe, il viso giallastro, due sopracciglia grigie e arruffate sotto le quali scintillano un paio di occhi pungenti, verdi come gli occhi di un gatto, un grande naso che pende sopra il labbro.

La bocca storta si spalanca spesso per una risata odiosa; e allora sulle guance gli si accendono due macchie rosse ed uno strano sibilo gli esce dai denti stretti.

Coppelius arrivava sempre con una giacca di taglio antico, color grigio cenere, panciotto e pantaloni uguali, calze nere e scarpe con una piccola fibbia; aveva un parrucchino che gli arrivava a malapena a metà della testa; le ciocche appiccicate sopra due grandi orecchie rosse, ed un codino attorcigliato e spettinato che gli si alzava sopra la nuca scoprendo la fibbia d’argento che sosteneva la cravatta increspata.

Tutta la sua figura era repellente ed odiosa, ma a noi bambini facevano soprattutto ribrezzo i grossi pugni nodosi, coperti di pelo, tanto che non potevamo più soffrire una cosa che egli avesse toccato.

Lui se n’era accorto e si divertiva a toccare, con un pretesto o con l’altro, un pezzettino di torta, o un frutto dolce che la mamma ci aveva messo sul piatto; e noi allora, con gli occhi pieni di lacrime, pieni di nausea e di spavento, non potevamo più mangiare il dolce che ci avrebbe dovuto rallegrare.

E faceva lo stesso anche quando, nei giorni di festa, mio padre ci versava un po’ di vino dolce; passava in fretta sopra il bicchierino il pugno o addirittura avvicinava l’orlo del bicchiere alle labbra bluastre, e rideva diabolicamente di noi che potevamo mostrare il nostro dispetto solo piangendo sottovoce.

Aveva l’abitudine di chiamarci le “bestioline” e quando c’era lui non potevamo pronunciare una parola, e maledivamo perciò quel vecchio brutto e antipatico che ci guastava di proposito e con intenzione anche il più piccolo divertimento.

Pareva che anche la mamma odiasse, come noi, l’insopportabile Coppelius; perché, appena si faceva vedere, la sua allegria, il suo carattere gaio e spensierato cedeva il posto ad un umore triste e tetro.

Di fronte a lui mio padre invece si comportava come se fosse un essere superiore di cui bisognava sopportare gli sgarbi, e che bisognava tenere in tutti i modi di buon umore.

Bastava che facesse un piccolo cenno e subito venivano preparati i suoi piatti preferiti o portate in tavola bottiglie di prezzo.

Non appena vidi questo Coppelius, nella mia anima nacque con un brivido la certezza che nessun altri che lui poteva essere l’Uomo della sabbia; ma ora l’Uomo cattivo non era più per me quello spauracchio della fiaba della bambinaia, che portava gli occhi dei bambini a mangiare alla sua nidiata di civette nella Mezza Luna, no, era divenuto un mostro odioso e spettrale che dovunque si presenta porta con sé dolori, angosce, eterna rovina.

Ero come incantato.

Esponendomi al rischio di essere scoperto e, come m’immaginavo, severamente punito, rimasi dov’ero, spiando con la testa fuori della tenda.

Mio padre accolse Coppelius con solennità.

– Su, al lavoro – esclamò questi con la sua voce rauca, imperiosa, e si levò la giacca.

Senza dir nulla e col volto imbronciato, anche mio padre si tolse la veste da camera e tutti e due indossarono due lunghi camici neri.

Dove li avessero presi non l’avevo visto.

Mio padre spalancò i battenti di un grande armadio, ma vidi che quello, che per tanto tempo avevo creduto fosse un armadio, era invece un grande vano nero aperto nel muro, nel quale si trovava un focolare.

Coppelius vi si avvicinò e ben presto una fiamma azzurra incominciò a crepitare sul fornello.

In giro c’era ogni sorta di arnesi e di attrezzi strani e insoliti.

Oh Dio!

Quando il mio vecchio padre si chinò sul fuoco, il suo volto parve completamente trasformato!

Un dolore orribile, convulso pareva che avesse sconvolto i suoi lineamenti dolci e sinceri, trasformandoli in una orribile maschera diabolica.

Assomigliava a Coppelius.

Questi brandiva un paio di tenaglie roventi e toglieva fuori da dense nuvole di fumo masse di metallo incandescenti che poi batteva furiosamente col martello.

Mi sembrava che tutto all’intorno comparissero volti umani, ma senza occhi, con orribili, profonde occhiaie nere, invece degli occhi.

– Occhi ci vogliono, occhi ci vogliono! – gridò Coppelius con una voce profonda, rimbombante.

Lanciai un urlo in preda al più terribile spavento, e ruzzolai fuori del mio nascondiglio, sul pavimento.

Coppelius mi afferrò immediatamente.

– Bestiolina, bestiolina! – gracidò con la sua voce fioca digrignando i denti; mi sollevò da terra e mi buttò sul focolare tanto che le fiamme incominciarono a bruciarmi i capelli.

– Ecco che abbiamo trovato gli occhi, gli occhi, un bel paio di occhi di bambino… – sussurrava Coppelius come un pazzo, e con le mani toglieva dalle fiamme grani di una materia incandescente che mi voleva gettare negli occhi.

Ma mio padre alzò le mani supplicando e gridando: – Maestro, maestro, lasciate gli occhi al mio Nataniele, lasciateglieli! –

Coppelius scoppiò in una risata stridula ed esclamò:

 – Che si tenga pure i suoi occhi e che versi la sua parte di lacrime nella vita; ma almeno studieremo il meccanismo delle mani e dei piedi –.

E così dicendo mi afferrò con tanta forza che le giunture mi scricchiolavano, mi svitò le mani ed i piedi, riappiccicandomeli ora qua ora là.

– Non stanno bene in nessun posto; era meglio come era prima, il vecchio ha saputo fare le cose! –

Brontolava e sussurrava così il vecchio Coppelius; ma d’un tratto fui circondato da una grande nuvola nera, una terribile convulsione mi scosse le ossa ed i nervi, e non sentii più nulla.

Sentii un alito dolce e tepido sul volto; mi destai come da un sogno mortale: la mamma stava chinata su di me.

– È ancora qui l’Uomo della sabbia? – balbettai.

– No, bambino mio, è andato via da molto tempo; non ti farà più nessun male!

– Così disse la mamma baciando ed accarezzando il suo caro figliolo ritrovato […].

Basta così: ero stato scoperto mentre spiavo nella stanza e Coppelius mi aveva malmenato.

La paura e lo spavento mi avevano procurato una febbre violenta che mi aveva trattenuto a letto ammalato per molte settimane.

– C’è ancora l’Uomo della sabbia? – fu la prima parola che pronunciai ed era il segno che stavo guarendo, che ero risanato.

Ora ti devo raccontare ancora il momento più terribile della mia infanzia; allora ti convincerai che non dipende da una particolarità dei miei occhi se d’un tratto tutto mi sembra senza colore, ma che un’oscura fatalità ha veramente teso un fosco velo di nubi sopra la mia vita, che forse potrò strappare solo morendo.

Coppelius non si era fatto più vedere; si diceva che fosse partito dalla città.

Poteva essere passato un anno quando una sera, secondo la vecchia abitudine, stavamo seduti intorno al tavolo rotondo.

Nostro padre era molto allegro e ci raccontava una quantità di cose divertenti a proposito dei viaggi che aveva fatto da giovane; d’un tratto, mentre battevano le nove, udimmo all’improvviso cigolare la porta di casa, e passi lenti, pesanti come il ferro, che rimbombavano attraverso l’androne e su per le scale.

– Dio mio, è Coppelius – disse mia madre impallidendo.

– Sì, è Coppelius – ripeté mio padre con la voce smorzata.

Le lacrime incominciarono a cadere dagli occhi di mia madre.

– Ma papà, papà, – esclamò; – è proprio necessario?

– Questa è l’ultima volta – egli rispose – che viene da me; te lo prometto.

Ora va, va coi bambini; andate, andate a letto! Buona notte!

Mi sentivo come se fossi murato dentro una pietra gelida e pesante; non riuscivo neanche a respirare; vedendomi là, immobile, mia madre mi afferrò per il braccio:

– Vieni, Nataniele, vieni via! –.

Mi lasciai condurre via, entrai nella mia cameretta.

– Su stai tranquillo! Mettiti a letto, dormi, dormi! – esclamò mia madre dietro di me; ma, torturato da un’angoscia e da una inquietudine indescrivibile, non potei chiudere un occhio.

L’odiato, spaventoso Coppelius mi stava davanti con gli occhi fulminanti e rideva perfidamente di me; mi sforzavo inutilmente di liberarmi di questa immagine.

Probabilmente era già mezzanotte quando si udì un terribile colpo, come se avesse sparato un cannone.

Tutta la casa rimbombò.

Sentii qualcuno che correva davanti alla mia porta, e subito dopo il portone di casa che si richiudeva sbattuto con forza.

– È Coppelius! – esclamai spaventato, saltando giù dal letto. In quella si sentì un urlo tagliente, disperato; mi precipitai verso la camera di mio padre.

La porta era spalancata e ne usciva un fumo asfissiante.

La serva gridò: – Ah, il padrone!

Per terra, davanti al focolare da cui salivano nuvole di fumo, era steso mio padre, morto, col volto coperto di bruciature nere, spaventosamente sconvolto; intorno a lui singhiozzavano e si lamentavano le sorelle; la mamma gli stava stesa accanto, svenuta.

– Coppelius, satana maledetto, hai ammazzato nostro padre! – gridai, e perdetti i sensi.

Due giorni dopo, quando mio padre fu steso nella bara, i lineamenti del suo volto erano nuovamente miti e dolci come erano stati in vita.

Nell’anima mi nacque il pensiero confortante che il suo patto col diabolico Coppelius non poteva averlo portato alla dannazione eterna.

L’esplosione aveva destato i vicini, l’incidente fu divulgato, e venne alle orecchie dell’autorità che voleva interrogare Coppelius; ma questi era scomparso dalla città senza lasciare nessuna traccia.

Se ora ti dico, amico del mio cuore, che quel mercante di barometri non era altro che l’infame Coppelius, credo che non mi rimprovererai se sono persuaso che la sua sgradita comparsa significa qualche grave sciagura.

Non aveva più gli stessi vestiti; ma la figura ed il volto di Coppelius sono impressi troppo profondamente dentro di me perché sia possibile un errore.

Ed oltre a tutto Coppelius non si è neanche cambiato il nome.

Qui in città, come ho sentito, si spaccia per un meccanico piemontese e dice di chiamarsi Giuseppe Coppola.

Sono deciso ad affrontarlo ed a vendicare la morte di mio padre, qualunque cosa possa succedere.

Non dire nulla alla mamma della comparsa di questo orribile mostro!

Saluta la mia amata, soave Clara!

Le scriverò quando avrò l’animo più tranquillo. Addio …

da E. T. A. Hoffmann, Racconti fantastici, trad. di C. Pinelli, Club degli Editori, Milano, 1969

Analisi

Il motivo romantico del demoniaco

La forma epistolare del racconto rivela sia lo sfogo romantico di un’anima (che ricerca comprensione e conforto nell’interlocutore) sia il tentativo, per quanto impossibile, di far luce nelle sue pieghe più misteriose.

I legami dell’autore con il Romanticismo sono presenti nei motivi di cui è intessuto il racconto: il misterioso. L’Uomo della sabbia dal passo pesante e minaccioso non è l’Orco fantastico di tante fiabe, quelle fiabe che si concludono con un lieto fine che recupera la vittoria del bene sul male e il trionfo della ragione.

In questo racconto il personaggio diviene il simbolo dell’irrazionale e del demoniaco nella nostra esistenza; qui diventa simbolo dell’incapacità della ragione di porvi un controllo.

L’uomo romantico ha così smarrito la sicurezza nella sua capacità di dominare il mondo e gli eventi e si trova in preda a forze estranee, imponderabili, che non può evitare né vincere.

Non c’è alcuna spiegazione razionale per quello che è assurdo e incomprensibile; ogni tentativo di indagine conduce necessariamente a una sconfitta, fino alla morte.

Fin dalla prima sequenza il narratore, in prima persona, dichiara la propria intenzione di narrare una verità e si rivolge al suo passato. Il protagonista narratore ricorda momenti della sua infanzia, con le impressioni così profonde da condizionare l’esistenza futura.

Presenta pochi tratti della sua vita in famiglia, ma ci mostra la tristezza della madre che, priva di un’apparente ragione, anticipa gli eventi in seguito narrati.

Il personaggio antagonista, l’Uomo della sabbia, rispetto all’io-narrante si delinea inizialmente come una delle tante fantasie per la psicologia infantile; è un essere privo di identità, soltanto immaginato, per mezzo del quale si spiegano alcuni fatti naturali (il sonno, in particolare).

Il motivo dell’occhio, spiegato dalla mamma, che richiama alla sabbia che il mostro getta in viso ai bambini sonnacchiosi, produce una sorta di oggetto simbolo legato all’attività terrificante del personaggio.

Nataniele è combattuto tra le esigenze della sua fantasia indagatrice, che elabora ipotesi circa la presenza dell’uomo presso suo padre, e il terrore di chiedere al padre le ragioni di quelle visite continuate nel tempo.

Con un salto temporale l’autore sintetizza più anni di vita del protagonista, per giungere rapidamente al momento più significativo del suo rapporto con l’Uomo della sabbia.

La voce narrante accentua il tono romantico della rievocazione, che si rifà al mistero del mondo interiore dell’uomo, aperto agli influssi affascinanti dell’irrazionalità.

Il ricordo dell’Uomo della sabbia esercita un indubbio interesse sulla mente del ragazzo. I disegni immaginari con cui egli lo rappresenta sugli armadi e sulle pareti, col gesso e col carbone, costituiscono, forse, un atto liberatorio: il ragazzo pensa di esorcizzare il mostro, riproducendolo, evocandolo e verificando che esso è innocuo.

Il riconoscimento permette a Nataniele di recuperare ciò che è irrazionale, contenerlo nell’area della realtà conosciuta, dargli un nome e dei connotati.

Coppelius mostra attributi di animalità, quasi demoniaci, significativi del ruolo misterioso che egli svolge. Il padre è sottomesso a Coppelius, un essere temibile, che egli non osa contrariare.

Egli partecipa, insieme con Coppelius, a strani riti a metà tra l’alchimia e la diavoleria. La vicinanza con il fuoco – simbolo di presenze demoniache – e con Coppelius, emblema terrestre del demonio, provoca la sua trasformazione.

Un finale non lieto

Il narratore annota diligentemente ogni cosa, la rievoca con minuziosa precisione, per dare credibilità al racconto. Il motivo ricorrente degli occhi, del furto degli occhi in particolare, trova ad un certo punto la sua orribile concretizzazione.

A Coppelius interessa conoscere il meccanismo del corpo per riprodurre artificialmente l’uomo. Questo tema, qui solo oscuramente accennato, sarà poi ripreso in modo molto più ampio e completo nel personaggio del dottor Frankenstein.

L’autore opera nel finale un’altra ellissi che porta a superare i tempi morti, per ricondurci nell’emozione della vicenda.

Il volto dolce e tiepido della madre sul suo, sensazione rassicurante avvertita da Nataniele al suo risveglio, rappresenta un momento di pausa emotiva prima del duro colpo finale. L’economia narrativa, abilmente gestita, sa dare l’impressione di un rasserenamento che invece è solo preparazione ad un’emozione più forte.

La conclusione non è rassicurante, come normalmente avviene nei racconti polizieschi o nelle fiabe. Il lieto fine qui non si realizza, ma si apre una nuova dimensione di terrore e di disgrazia. La ragione non è riuscita a mettere ordine nei fenomeni e può considerarsi sconfitta.

© Istituto Italiano Edizioni Atlas 6 Ernst T. A. Hoffmann, L’Uomo della sabbia

Comprendere

1 A chi scrive Nataniele? Perché ha deciso di comunicare questi suoi ricordi?

2 Il racconto si svolge tutto in un interno. Di che cosa potrebbe essere simbolo la casa in cui Nataniele e la sua famiglia vivono il loro dramma?

a. Dell’anima dell’uomo in preda all’angoscia.

b. Dell’impossibilità di liberarsi dal male.

c. Della ragione incapace di uscire dalle spire dell’irrazionalità.

d. Altra ipotesi: ……………………………………………………………….

Analizzare

3 Dividi il racconto in sequenze, sottolineando soprattutto l’alternanza di momenti di tensione e momenti di rilassamento emotivo nella lunga serie dei ricordi del narratore. Ai momenti di tensione assocerai una sottolineatura con penna rossa, mentre segnerai con una penna di altro colore i momenti di particolare calma e apparente serenità.

Scrivi poi un riassunto del brano.

4 Coppelius rappresenta nel racconto il personaggio antagonista, cui l’autore attribuisce delle caratteristiche alquanto singolari. Rispondi alle seguenti domande:

a. Come si comporta nei confronti della famiglia di Nataniele?

b. Quale ora del giorno accompagna il suo arrivo e come si spiega ciò?

c. Quale atteggiamento assume nei confronti di Nataniele, che ha spiato le sue mosse?

d. Come si traveste nelle nuove sembianze nel finale del racconto?

5 Quali sono nel racconto gli indizi che rivelano un narratore onnisciente? Commenta la tua scelta e giustificala con argomentazioni plausibili.

Approfondire e produrre

6 Confronta il brano letto con un altro racconto dell’orrore che conosci. Cerca di individuare gli

elementi comuni che definiscono il genere.

7 Inventa un racconto dell’orrore, con tutti gli elementi caratteristici del genere.