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Introduzione

Eveline è il quarto racconto della raccolta Gente di Dublino scritto nel 1914 da James Joyce. Con questo racconto l’autore inaugura la serie di racconti dedicati all’adolescenza.

Eveline ha diciannove anni ed ha avuta un’infanzia misera a triste: la morte del fratello, la pazzia prima e la morte della madre poi, la durezza del padre, la miseria le si è appiccicata addosso ... Adesso però ha la possibilità di scappare, le si apre una nuova prospettiva con un buon giovane. Ma Eveline non riesce.

La sua rinuncia la colloca all’interno di quel modello frequente nella letteratura del Novecento: quello dell’inetto, incapace di prendere in mano la sua vita.

Testo

Sedeva alla finestra osservando le ombre della sera che invadevano il viale.
Teneva la testa appoggiata alle tende e nelle narici aveva l’odore della tappezzeria polverosa. 
Era stanca.
Passava poca gente.
L’uomo dell’ultima casa passò diretto ad essa; lei udì i passi dell’uomo passi risuonare secchi sull’asfalto del marciapiede; poi sentì loscricchiolare dei suoi passi sulla cenere del sentiero davanti alle nuove case rosse.
Un tempo lì c’era un campo dove molti ragazzi giocavano tutte le sere. Poi un giorno,un tale di Belfast aveva comprato il campo e vi aveva costruito case, non come le loro che erano piccole e scure, ma case allegre case fatte di mattoni rossi e tetti lucenti. 
Tutti i bambini che abitavano in quel viale giocavano insieme in quel campo: i Devines, i Waters, i Dunns, il piccolo Keogh lo storpio, lei e i suoi fratelli e sorelle. 
Ernest no, lui non andava mai a giocare lì: era troppo grande. Suo padre spesso andava al prato e li cacciava via con il bastone di rovo; ma, di solito, il piccolo Keogh faceva la guardia e dava l’allarme quando vedeva suo padre venire.
Eppure a lei sembrava che fossero abbastanza feli­ci allora.
Suo padre non era tanto cattivo e sua madre era viva. Era passato tanto tempo da allora: lei, i suoi fratelli e le sue sorelle erano cresciu­ti e sua madre era morta.
Anche Tizzie Dunn era morta e i Waters erano tornati in Inghilterra. Tutto cambia. 
Adesso anche lei stava per andare via come gli altri, stava per lasciare la sua casa.

La casa!
Eveline guardò in giro per la stanza, passando in rivista tutti gli ogget­ti familiari che aveva spolverato una volta alla settimana per tanti anni, si era sempre chiesta da dove mai venisse tutta quella polvere. Forse non avrebbe mai più rivisto gli oggetti familiari dai quali non aveva mai imma­ginato di separarsi.
Eppure durante tutti quegli anni non era mai riuscita a scoprire il nome del prete la cui fotografia ingiallita era appesa al muro, sopra l’armonium rotto, accanto alla stampa colorata della rivelazione della beata Margaret Mary Alacoque. 
Il prete era stato un amico di scuola di suo padre. Ogni volta che mostrava la fotografia a un ospite suo padre si limitava sempre a dire distrattamente:
« È a Melbourne adesso».

  Eveline aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la sua casa. Aveva fatto bene?
   Cercò di considerare la questione sotto tutti i punti di vista: 
A casa aveva comun­que tetto e cibo; aveva intorno gente che conosceva da quando era nata.
Certo che doveva lavorare sodo, sia a casa sia al negozio. E che cosa avrebbero detto di lei ai grandi magazzini quando avessero scoperto che lei era scappata con uno? Avrebbero detto che era una stupida, forse e avrebbero cercato qualcuno per rimpiazzarla. La signorina Gavan sarebbe stata ben contenta.
Ce l’aveva sempre avuta con lei, la punzecchiava ogni volta che c’era gente che ascoltava.
«Signorina Hill, non vede che quelle signore stanno aspettando?»
«Un po’ di energia, signorina Hill, per favore.»

   Non avrebbe versato molte lacrime nel lasciare i grandi magazzini.
Ma nella sua nuova casa, in un lontano paese ignoto, non sarebbe stato così.
Allora sarebbe stata un donna sposata: lei, Eveline. 
La gente l’avrebbe trat­tata con rispetto, non l’avrebbero trattata come era stata trattata sua madre.
Persino ora, sebbene avesse già diciannove anni passati, talvolta si sentiva ancora minacciata dalla violenza di suo padre.
Sapeva che era questo che il suo cuore batteva molto forte.
Quando erano piccoli il padre non se l’era mai presa con lei, come faceva con Harry ed Ernest, perché era una femmina.
Ma poi aveva cominciato a minacciarla e a dirlequello che le avrebbe fatto, se non avesse avuto riguardo di sua madre morta. 
Adesso non c’era più nessuno che la proteggesse, Ernest era morto e Harry, che lavorava come decoratore di chiese, era quasi sempre lontano, in qualche posto in cam­pagna.

Inoltre, tutti i sabati sera si ripeteva lo stesso battibecco per i soldi, questo aveva cominciato a sfinirla.
Dava sempre in casa tutto il suo salario di sette scellini e Harry mandava quello che poteva, ma il dramma era riuscire a farsi dare qualche soldo dal padre. 
Lui le diceva che lei era una spendacciona, che sperperava il denaro, che non aveva testa, che non le avrebbe dato i soldi faticosamente guadagnati da spendere e spandere per strada, e molto di più, perché di solito il sabato sera era piuttosto malridotto.
Alla fine le dava un po’ di soldi chiedendole se avesse intenzione o meno di comprare qualcosa per il pranzo domenicale.
Allora Eveline doveva precipitarsi fuori il più rapidamente possibile per andare al mercato, tenendo stretto in mano il borsellino di cuoio nero mentre si faceva strada a gomitate fra la folla e poi tornava a casa tardi carica di provviste. 
Era una bella fatica mandare avanti la casa e fare in modo che i due bambini che le erano rimasti af­fidati, andassero a scuola regolarmente e avessero pasti regolari. Era un duro lavoro, una vita grama, eppure ora che stava per lasciarla non le sembrava uan vita così terribile.
Con Frank stava per cominciare un’altra vita.
Frank era molto buono, virile e generoso. Doveva partire con lui sul piroscafo che partiva quella notte; si sarebbero sposati e sarebbero andati a vivere a Buenos Aires, dove lui aveva una casa che l’aspettava. 
Lei ricordava bene la prima volta che l’aveva visto; alloggiava in una pensione sulla strada principale dove lei andava a trovare dei conoscenti. Le pareva che fossero passate solo poche settimane.
Lui stava in piedi al cancello, con il berretto a visiera spinto indietro sulla testa e i capelli che gli ricadevano in avanti su un viso abbronzato.
Poi avevabno fatto conoscenza. Lui l’aspettava tutte le sere fuori dei grandi magazzini e l’accompagnava a casa.
L’aveva por­tata a vedere La ragazza di Boemia, un’operetta composta da un musicista irlandese, e lei si era tanto emozionata, mentre stava seduta vicino a lui, in quel teatro, in quei posti così insoliti per lei.
Lui amava molto la musica e se la cavava bene anche a cantare. La gente sapeva che le faceva la corte e, quando lui can­tava al canzone della ragazza che ama un marinaio, si sentiva sempre piacevolmente imbarazzata. 
Lui, per scherzo, la chiamava Papavero.
All’inizio, l’idea di avere un ragazzo l’aveva messa un po’ a disagio, ma poi questo aveva cominciato a piacerle davvero!
Lui le parlava di paesi lontani. Il ragazzo aveva cominciato a lavorare come mozzo,a una ster­lina al mese, su una nave della Allan Line, che viaggiava tra Irlanda e Canada. Le diceva i nomi delle navi su cui era stato e le raccontava le sue mansioni.
Aveva attraversato lo stretto di Magellano e le raccontava sto­rie sui selvaggi che abitano la Patagonia.
A Buenos Aires aveva fatto fortuna ed era tornato nella vecchia patria solo per una vacanza.
Naturalmente il padre di Eveline aveva scoperto la relazione e le aveva proibito di avere a che fare con lui.
«Li conosco questi marinai» aveva detto.
Un giorno suo padre aveva bisticciato con Frank, e così lei si era dovuta incontrare col fidanzato di nascosto.
La sera faceva sempre buoio sul v e il bianco di due lettere che lei teneva in grembo si fece indistinto.
Una lettera era per Harry; l’altra per suo padre. Lei aveva sempre preferito Ernest, ma voleva bene anche a Harry. 
Pensò a suo padre che stava invecchiando, e wsi rese conto che lei gli sarebbe mancata.
Qualche volta anche lui sapeva essere molto carino. Non molto tempo prima, infatti, un giorno in cui lei era stata male, lui le aveva letto ad alta voce una storia di spiriti e le aveva  ahbrustolito il pane sul fuoco.
Un’altra volta, quando sua madre era ancora viva, erano andati tutti a fare un picnic sul colle di Howth. Si ricordò che lui aveva indossato il cappello di sua madre per fare ridere i bambini.

Il tempo passava, ma lei continuava a sedere accanto alla finestra, appoggiando la testa alla tenda, aspirando l’odore di cretonne polverosa.
Lontano nel viale si sentiva udiva un organetto suonare; lei conosceva quel otivetto.
Era strano che proprio quella sera lei si ricordasse della promessa fatta a sua madre, la promessa di mandare avanti la casa il più a lungo possibile.
Ricordò l’ultima notte della malattia di sua madre; era di nuovo nella buia stanza soffocante dall’altro lato dell’ingresso e fuo­ri sentiva suonare una malinconica canzone italiana.
Poi qualcuno aveva dato sei pence al suonatore d’organetto e lui se n’era andato.
Si ricordò d suo padre che era rientrato in casa dalla moglie malata e aveva esclamato:
«Maledetti italiani! Proprio qui devono venire! ».
Mentre fantasticava, sentiva dentro di sé, come un incantesimo, la penosa visione della vita della mamma, una vita fatta di sacrifici quotidiani e conclusa tristemente con la pazzia.
La ragazza tremava nel sentire ancora la voce della mamma che continuava a ripetere con delirante insistenza:
– Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!
(espressione intraducibile che sembra rivelare la pazzia della madre)
Subito la ragazza venne colta da un senso di terrore che la fece alzare in piedi. Sentì che doveva fuggire! Doveva scappare! Solo Frank l’avrebbe salvata. Lui le avrebbe dato una nuova vita e, forse, anche l’amore.
Ma quello che lei voleva era vivere. Lei aveva diritto di essere felice. Frank l’avrebbe presa tra le braccia e l’avrebbe stretta forte tra le sue
braccia. L’avrebbe salvata!

Eveline stava in mezzo alla folla ondeggiante nella stazione al North Wall. Lui le teneva la mano e lei sentiva che le stava parlando, che continuava a ripeterle qualcosa sulla traversata.
La stazione era piena di solda­ti con i loro zaini di tela scura. Attraverso le ampie porte dei capannoni intravede­va la mole nera della nave, ormeggiata accanto al muro del molo, con gli oblò illuminati.
Lei non rispondeva alle sue domande. Sentiva le sue guance pallide e fredde e, colta da una vertigine di angoscia, pregò Dio di guidarla, di indicarle quale fosse il suo dovere. 
La nave mandò un lungo fischio lugubre nella nebbia.
Se fosse partita il giorno dopo sarebbe stata sul mare con Frank, diretta a Buenos Aires.
I biglietti per la traversata erano già stati acquistati.
Poteva ancora tirarsi indietro dopo tutto quello che lui aveva fat­to per lei? L’angoscia le fece venire la nausea mentre continuava a muovere le labbra in silenziosa fervida preghiera.
Una campana le squillò nelcuore. Sentì che lui le afferrava la mano:
«Vieni!».
Tutti i mari del mondo le si rovesciarono intorno al cuore. E lui la stava attirando dentro di essi: lei sarebbe affogata.
la ragazza si aggrappò con entrambe le mani al parapetto di ferro.
«Vieni! »
No! No! No! Era impossibile. Le mani stringevano convulse e freneti­che la ringhiera. le sfuggì un grido disperato.
«Eveline! Evvy! »
Lui si precipitò oltre la cancellata e le gridò di seguirlo.
Altri gli urlarono di andare avanti, ma lui la chiamava ancora.
Lei si voltò verso di lui e lo guardò con lo sguardo pallido inerte, come un animale senza via di scampo. Non c’era amore, nei suoi occhi, non un addio, era come se non lo riconoscessero.
da J. Joyce, Gente di Dublino

Rispondi

  1. Chi è Eveline?
  2. In quale città vive?
  3. Com’è stata la sua infanzia?
  4. Che cosa la attende?
  5. Chi è Frank?
  6. Come si conclude il racconto?
  7. Fai un riassunto breve di massimo 5 righe.
  8. Delinea uno schema del racconto.
  9. Fai un riassunto più ampio, 20 – 30 righe.

Fonti

  • © Istituto Italiano Edizioni Atlas – Gente di Dublino, James Joyce
  • https://digilander.libero.it/mgtund/eveline%20it%20def.htm