Biografia

Cesare Pavese è stato uno scrittore, traduttore, poeta e critco letterario.

Cesare Pavese nasce nel 1908 in un paesino delle Langhe in provincia di Cuneo. Qui trascorre l’infanzia, e quando la famiglia si trasferisce a Torino lui rimpiange i paesaggi che avevano fatto da sfondo alla sua infanzia e che diventano per Pavese simboli di spensieratezza e di serenità. 

La vita famigliare di Cesare è stata funestata da diversi lutti: tre fratelli nati prima di lui erano morti e quando lui aveva solo sei anni morì anche il padre. 

Le sventure e la cagionevole salute della madre incidono sul suo carattere già schivo di natura e contribuiscono a renderlo ancora più introverso. 

Da ragazzo Cesare Pavese era attratto più dalla natura che dai suoi coetanei: amava passeggiare nei boschi molto più che mettersi in relazione con i compagni. 

La perdita del padre e il dolore che la madre non riesce a superare per questo ennesimo lutto incidono pesantemente sui pensieri di Pavese che coltiva idee di morte e di suicidio già dall’adolescenza.

Compie gli studi liceali a Torino; suo professore è Augusto Monti, intellettuale antifascista torinese.

Al termine del Liceo Cesare Pavese si iscrive alla Facoltà di Lettere dove si laurea con una tesi in letteratura inglese; dopo la laurea si dedica alla traduzione di opere di autori americani come il Moby Dick di Herman Melville.

Nel 1931 muore la mamma di Cesare Pavese e la situazione per il giovane si fa difficile. Antifascista convinto non aveva voluto iscriversi al partito fascista e per questo diventava sempre più difficili trovare incarichi per insegnare. 

Nel 1934 cede alle insistenze della sorella e di alcuni amici e si iscrive al partito anche se continua a collaborare con la rivista antifascista “Cultura”.

Tra una traduzione e la pubblicazione della sua prima raccolta di versi “Lavorare stanca” nel 1936, ottiene anche una collaborazione con la casa editrice Einaudi.

Siccome Pavese frequenta amici antifascisti, viene perquisito il suo appartamento e ingiustamente condannato a tre anni di confino.

Il periodo compreso tra il 1936 e il 1949 la sua produzione letteraria è ricchissima.

Nel 1940 Pavese si innamora di Fernanda Pivano ma la fanciulla non ricambia l’amore.

Quando scoppia la guerra lui cerca rifugio nella casa di sua sorella nel Monferrato. 

Alla fine della guerra Pavese si iscrive al Partito Comunista Italiano; insieme ad altri intellettuali come Vittorini e Calvino, opera per promuovere la diffusione di una cultura nuova, con l’obiettivo di favorire la rinascita democratica del Paese. Inizia anche a pubblicare alcuni scritti sull’Unità, la testata giornalistica del PCI. 

Nel 1950 vince il Premio Strega con il romanzo  “La bella estate”una raccolta di tre romanzi brevi.

L’indole chiusa e il carattere oscuro fanno si che Pavese abbia coltivato spesso l’idea del suicidio. Il 27 agosto 1950 Pavese porta a termine il suo progetto e a 42 anni si toglie la vita in una camera d’albergo. 

Pavese e il mito di Orfeo

Della sua ricchissima produzione letteraria parliamo dei “Dialoghi con Leucò” una raccolta di brevi racconti strutturati in forma dialogica.

Sulla prima pagina di una sua opera “I dialoghi con Leucò” lascia un messaggio: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

Nei “Dialoghi con Leucò” opera una rivisitazione dei miti e uno di questi parla di Orfeo. 

Il dialogo esprime il dramma di Orfeo che ha ben compreso come la morte di Euridice rappresenti il definitivo concludersi di un’epoca. Orfeo dichiara di essersi reso conto che non avesse senso riportarla in vita, in quanto tutto quello che è ormai perduto non torna, ma è perduto per sempre. Lo è per sempre. 

Per questo motivo Orfeo sceglie di voltarsi, quando già intravedeva il barlume del giorno.

In questo mito si è posta spesso l’attenzione sull’impazienza dell’innamorato, che non ha saputo aspettare e per questo ha perso definitivamente la sua amata. 

Pavese invece ribalta la situazione e narra che Orfeo abbia deciso consapevolmente di girarsi per evitare che Euridice tornasse sulla terra. 

ORFEO: È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. Si intravedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò che è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo attraversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolio, come d’un topo che si salva.

BACCA: Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. Qui si diceva che eri caro agli dèi e alle muse. Molte di noi ti seguono perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che – solo tra gli uomini – hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.

ORFEO: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.

BACCA: Qui si dice che fu per amore.

ORFEO: Non si ama chi è morto.

BACCA: Eppure hai pianto per monti e colline – l’hai cercata e chiamata – sei disceso nell’Ade. Questo cos’era?

ORFEO: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefòne nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla.

BACCA: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.

ORFEO: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla.

BACCA: E così tu che cantando avevi riavuto il passato, l’hai respinto e distrutto. No, non ci posso credere.

ORFEO: Capiscimi, Bacca. Fu un vero passato soltanto nel canto. L’Ade vide se stesso soltanto ascoltandomi. Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.

BACCA: Come hai potuto rassegnarti, Orfeo? Chi ti ha visto al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un’esistenza.

ORFEO: Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.

BACCA: Molte di noi ti vengon dietro perché credevano a questo tuo pianto. Tu ci hai dunque ingannate?

ORFEO: O Bacca, Bacca, non vuoi proprio capire? Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.

BACCA: Qui noi siamo più semplici, Orfeo. Qui crediamo all’amore e alla morte, e piangiamo e ridiamo con tutti. Le nostre feste più gioiose sono quelle dove scorre del sangue. Noi, le donne di Tracia, non le temiamo queste cose.

ORFEO: Visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato tra i morti… Non vale la pena.

BACCA: Un tempo non eri così. Non parlavi del nulla. Accostare la morte ci fa simili agli dèi. Tu stesso insegnavi che un’ebbrezza travolge la vita e la morte e ci fa più che umani… Tu hai veduto la festa.

ORFEO: Non è il sangue ciò che conta, ragazza. Né l’ebbrezza né il sangue mi fanno impressione. Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo. Neanche tu, Bacca, lo sai.

BACCA: Senza di noi saresti nulla, Orfeo.

ORFEO: Lo dicevo e lo so. Ma poi che importa? Senza di voi sono disceso all’Ade…

BACCA: Sei disceso a cercarci.

ORFEO: Ma non vi ho trovate. Volevo tutt’altro. Che tornando alla luce ho trovato.

BACCA: Un tempo cantavi Euridice sui monti…

ORFEO: Il tempo passa, Bacca. Ci sono i monti, non c’è più Euridice. Queste cose hanno un nome, e si chiamano uomo. Invocare gli dèi della festa qui non serve.

BACCA: Anche tu li invocavi.

ORFEO: Tutto fa un uomo, nella vita. Tutto crede, nei giorni. Crede perfino che il suo sangue scorra alle volte in vene altrui. O che quello che è stato si possa disfare. Crede di rompere il destino con l’ebbrezza. Tutto questo lo so e non è nulla.

BACCA: Non sai che farti della morte, Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.

ORFEO: E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. E’ necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.

BACCA: E che vuol dire che un destino non tradisce?

ORFEO: Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo.

BACCA: Può darsi, Orfeo. Ma noi non cerchiamo nessuna Euridice. Com’è dunque che scendiamo all’inferno anche noi?

ORFEO: Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.

BACCA: Dici cose cattive… Dunque hai perso la luce anche tu?

ORFEO: Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso.

BACCA: Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un
signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza, si dilania o si vien dilaniate. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.

ORFEO: Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno. Nessuna donna come te, sa cosa sia.

BACCA: Forse è per questo che ti seguono, le donne della Tracia. Tu sei per loro come il dio. Sei disceso dai monti.
Canti versi di amore e di morte.

ORFEO: Sciocca. Con te si può parlare almeno. Forse un giorno sarai come un uomo.

BACCA: Purché prima le donne di Tracia…

ORFEO: Di’.

BACCA: Purché non sbranino il dio.
Dialoghi con Leucò, cesare Pavese – Einaudi 2020

Orfeo dice che il destino “è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza”.

Pavese sceglie di rispondere alla domanda sul perché  Orfeo si sia voltato. Per quale motivo Orfeo non è stato paziente? Perché non ha saputo aspettare? Sono state insicurezza o impazienza a spingerlo a voltarsi troppo presto? 

Pavese sostiene che Orfeo ad un tratto abbia deciso di voltarsi, lo ha scelto, volontariamente, consapevolmente. Ha scelto di lasciare Euridice nel regno dei morti.  

Pavese ritiene infatti assolutamente  insensato che Orfeo si sia voltato per errore, non è pensabile che un uomo sia arrivato fino in fondo al regno dei morti, abbia affrontato dolore e paura e poi vanifichi tutto questo per impazienza; non è coerente, secondo lui.  

Cesare Pavese in questo dialogo afferma che Orfeo sia sceso negli Inferi “credendo” di  cercare Euridice, ma in verità lui stava cercando solo se stesso. Orfeo era alla ricerca di quell’Orfeo che esisteva prima dell’incontro con Euridice. 

Ma il giovane non è, fin da subito, consapevole di ciò; Orfeo  comprende questa verità solo quando sta risalendo. 

Orfeo mette in campo tutto sé stesso; affronta gli inferi e riesce a piegare il destino grazie alla straordinaria  forza della musica. Ma mentre sta risalendo, dentro di sé si fa consapevole che ciascuno è legato al proprio destino a cui non ci si può sottrarre. 

Orfeo comprende in quel momento di aver vissuto una straordinaria stagione con Euridice ma comprende anche che quella stagione è ormai conclusa. Comprende anche che quella felicità era scritta nel suo destino ma nessuno può avere una felicità che non è già scritta. 

 Scendendo negli inferi Orfeo comprende di essere sceso per cercare il suo nuovo destino, non cercava Euridice, ma il nuovo senso, la nuova direzione della sua vita. 

In quel preciso momento Orfeo diventa uomo perché comprende e accetta la morte,  elemento essenziale e imprescindibile della vita. 

Rendersi conto che la morte esiste dona la consapevolezza a Orfeo che nella vita la felicità ha un limitato spazio di tempo. 

Se Euridice fosse tornata alla vita avrebbe comunque dovuto riaffrontare la morte. E allora che senso aveva riprendere Euridice sapendo che lui l’avrebbe persa di nuovo. Per quale motivo avrebbe dovuto costringerla a morire di nuovo?

E con quei pensieri Orfeo la lascia andare …

Rispondi

Chi sono i due interlocutori?

Qual è l’argomento di cui si parla nel dialogo?

Di cosa discutono?

Per quale ragione Bacca non riesce a comprendere che Orfeo abbia scelto consapevolmente di lasciare Euridice negli Inferi?

Come spiega Orfeo la sua scelta?

Che cosa ha significato per Orfeo scendere negli Inferi?

Che cosa ha compreso in quel momento ?

Per quale motivo Orfeo ora è inconsolabile? Si tratta solo della perdita di Euridice o c’è qualco’altro?

Quale soluzione propone Bacca per poter essere felici?