Luigi Pirandello nasce ad Agrigento nel 1867 da famiglia benestante che vive di estrazione e commercio dello zolfo.

In casa si respirano ideali risorgimentali: il nonno aveva partecipato alla rivoluzione siciliana del 1848 e il padre alla spedizione dei Mille.

Si iscrive alla Facoltà di Lettere prima a Palermo, poi a Roma e si laurea a Bonn con una tesi sul dialetto agrigentino.

Nel 1894 Pirandello sposa Antonietta Portulano. Il matrimonio, com’è consuetudine per l’epoca, è combinato dalle famiglie: i due padri sono soci e anche la ricca dote di Antonietta confluisce nella zolfara.

A Roma, dove si stabiliscono, Pirandello insegna e Antonietta si prende cura della famiglia. Lei è una donna molto emotiva e spesso inquieta, tanto che Luigi vive, talvolta con fatica, le fragilità di lei; comunque la relazione tra i due funziona, dal matrimonio nascono tre figli, e la famiglia vive grazie ai proventi della cava di zolfo.

Ma, nel 1903, un crollo nella zolfara provoca un allagamento rendendola inutilizzabile. È la tragedia: le entrate che garantivano a tutti una vita agiata, si interrompono e il capitale investito, tra cui la dote di Antonietta, è perso per sempre. La famiglia si trova quindi sul lastrico.

Ma anche un altro dramma colpisce Pirandello.

Sua moglie, infatti, rimane tanto scossa dall’incidente che il suo delicato equilibrio emotivo frana assieme alle strutture della miniera: Antonietta perde la lucidità, inizia a dare progressivi segni di instabilità mentale e mostra di avere una percezione alterata della realtà.

Inizia così per Pirandello un periodo difficile, che si rivelerà però molto fecondo dal punto di vista professionale.

Lo sguardo smarrito e disorientato della moglie mostra a Pirandello un modo diverso di guardare il mondo: attraverso gli occhi di Antonietta la realtà si frantuma in mille prospettive diverse, in mille caleidoscopiche sfumature e, cambiando il punto di vista, si accorge che una stessa circostanza può essere raccontata in molti modi diversi, talmente lontani da risultare inconciliabili.

Pirandello inizia così a raccontare, nei suoi scritti, situazioni in cui si perdono le certezze, contesti che mostrano verità contrapposte, vite che si nascondono abilmente dietro infinite maschere. Spinto dalla necessità, Pirandello lavora senza sosta e continua a pubblicare romanzi e novelle e testi teatrali.

Già nel 1904 pubblica, a puntate, “Il fu Mattia Pascal” il suo capolavoro. Il romanzo racconta la vicenda di Mattia Pascal, che viene erroneamente dichiarato morto. In quel momento il protagonista decide che la vita gli sta offrendo un’altra opportunità: cambia pettinatura e taglio di barba, indossa nuovi abiti e nuovo nome e diventa Adriano Meis.

Mattia sceglie quindi di togliersi la “maschera” di fallito, misero e infelice e, grazie alla congrua somma di denaro vinta al casinò, veste i panni del ricco Adriano che vive di rendita.

Ma questo cambiamento si rivela, ben presto, più complicato del previsto.

La sua nuova identità non gli permette di vivere pienamente perché, per lo stato italiano, Adriano Meis non esiste. Gli tocca vivere nell’ombra, senza poter andare in albergo, dove gli chiederebbero i documenti, senza rivolgersi alla polizia quando viene derubato, e soprattutto senza poter sposare la fanciulla di cui è innamorato e che lo corrisponde.

I protagonisti delle 246 novelle di Pirandello provengono quasi sempre dalla piccola o media borghesia cittadina; appartengono alla sua stessa classe sociale e ne portano i valori, le incongruenze e i paradossi.

Ci sono personaggi che vivono schiacciati dalle maschere, dalle regole sociali che calpestano gli individui, che li stritolano, che li opprimono. Alcuni di loro scelgono di fuggire dalla società, per sottrarsi ai vincoli troppo stretti, ma poi si perdono nel mondo.

Nelle sue opere Pirandello mostra le incongruenze dell’uomo di tutti i tempi. Tutti indossano maschere, che sono essenziali per stare nel mondo. Ma le maschere schiacciano il flusso vitale dell’individuo e lo opprimono al punto che, a volte, gli tolgono il fiato. E allora è utile guardare al di sotto di esse per riprendere contatto con la propria essenza vitale.

Qualche volta, ma solo qualche volta, come insegnano i protagonisti de “La carriola” e “Il treno ha fischiato” si può provare a togliersi la maschera, per respirare un po’, per divertirsi e fare magari anche qualche gesto che, al mondo, potrebbe apparire folle. Poi, dopo aver preso aria, è necessario indossarla di nuovo, perché, senza di essa, l’uomo si perde e rischia addirittura di impazzire. E, si sa, la follia è un privilegio da usare con moderazione.

Qualche personaggio decide di indossare il berretto a sonagli della pazzia per poter “gridare in faccia a tutti la verità”. Già perché, spiega lo scrivano Ciampa nel testo teatrale “Il berretto a sonagli” “la verità non si può mai dire e solo chi è pazzo può permettersi di dire tutta la verità al mondo”.

Molte sono le novelle in cui Pirandello ci presenta personaggi che sembrano impazziti. L’autore allora ci porta “dietro le quinte” di tante esistenze per scoprire il senso di quello che la società definisce semplicemente follia.

Nella famosa novella “La patente”, si narrano le vicende di Rosario Chiàrchiaro considerato, dalla superstizione popolare, uno jettatore. Il pover’uomo non solo viene segnato a dito per strada e seguito da segni scaramantici, ma perde anche il lavoro.

Come fare a mantenere la famiglia e a sopravvivere a questa sventura? Chiàrchiaro, decide di cavalcare l’onda: si lascia crescere la barba, indossa occhiali grossi e scuri, un abito lustro che gli conferisce l’aspetto di un barbagianni, e esce di casa per fare “la professione dello jettatore!”

Impazzito? No, assolutamente lucido. Semplicemente decide che, da quel momento, la gente pagherà per far allontanare lo jettatore; e così almeno la sua famiglia avrà di che vivere.

Incredibile è la mole di opere che Pirandello ha realizzato, tante novelle diventano drammi teatrali, molti dei quali troneggiano ancora oggi nei cartelloni delle stagioni teatrali; è così che la sua geniale produzione gli vale nel 1934 il premio Nobel per la letteratura.