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Troppa gente da sfamare

A cavallo dell’anno mille, dopo la crisi che era seguita al crollo dell’impero romano, era iniziata una rinascita economica. Si era così innescata una fase di sviluppo economico e demografico che era proseguita per un lungo periodo. Nel corso del Duecento però si era manifestata una progressiva inversione di tendenza: infatti per nutrire la popolazione in costante crescita si erano messe a coltura terre marginali e poco fertili. Per questo il processo di espansione dell’agricoltura, che era il settore più importante del Medioevo, aveva raggiunto il suo limite massimo. In mancanza di nuove tecniche che fossero in grado di aumentare la fertilità dei campi e di differenziare le colture, in molte aree agricole d’Europa le rese dei terreni, cioè il rapporto medio tra la semente e il raccolto, avevano cominciato a diminuire.

La cattedrale di Siena, tracce dell’ampliamento previsto e lasciato incompiuto

Nel Duecento si innescò così un meccanismo per cui la popolazione crebbe in modo molto più rapido rispetto a quello delle disponibilità alimentari. Quando il rapporto tra prodotto agricolo e popolazione diventò troppo sproporzionato, la popolazione iniziò a soffrire e a diminuire e tale diminuzione ebbe ripercussini negative sulla produzione agricola. Nel Trecento la popolazione europea raggiunse i 70 milioni di abitanti. Gli storici ritengono che tale cifra fosse sproporzionata rispetto alle risorse messe a disposizione dai mezzi di produzione dell’epoca.

Nel Trecento si assistette anche ad un peggioramento del clima. Questo portò anche ad un avanzamento dei ghiacciai. Fu sicuramente anche questa una delle cause delle carestie che afflissero gli abitanti di diverse zone d’Europa nel 1317, 1333, 1346 e 1347. 

Giovanni Villani nella sua opera “”La nuova cronica” descrive la carestia di Firenze nel 1347: “Fu così grande la necessità che le più delle famiglie dei contadini abbandonavano i poteri e rubavano per la fame l’uno all’altro ciò che trovavano e molti ne vennero mendicando in Firenze e così dei Forestieri di intorno che era una pietà a vedere e udire”.

La crisi finanziaria

La situazione di crisi dilaga anche in altri settori e si espande anche al settore finanziario. Alcune compagnie mercantili e bancarie fiorentine come i Bardi, presso cui lavora il padre di Boccaccio, e i Peruzzi avevano conosciuto nei decenni precedenti uno straordinario sviluppo erano così diventati principali istituti finanziari di Europa. In quegli anni i due istituti di credito avevano prestato soldi a sovrani e signori.

Ma accade che il re d’Inghilterra non restituisce i prestiti che gli erano stati elargiti e il Re di Napoli richiede all’improvviso di prelevare delle ingenti somme.

Questo provoca il fallimento di queste grandi banche e il loro crollo travolge anche tutti coloro che avevano affidato a tali banche i loro risparmi. Questo è il motivo che porta Boccaccio a rientrare a Firenze.

Ma il fallimento di tali compagnie finanziarie ha pesanti ripercussioni anche nel settore mercantile. Una volta scoppiata la crisi, si innesca un circolo vizioso per cui la crisi alimenta se stessa e si estende a macchia d’olio.

La guerra dei Cent’anni

Nel 1337 era scoppiata anche la Guerra dei cent’anni tra la nobiltà inglese e la nobiltà francese, una guerra durata circa un secolo. Vedi articolo.

La peste nera 

La popolazione debilitata dalla fame cercava di sopravvivere nelle campagne o si riversava in città in cerca di elemosina. Se nelle città la situazione igienica nel Medioevo era già critica, con l’afflusso di popolazioni affamate e disperate dalla campagna non poteva che peggiorare. Questo aiuta a comprendere perché, quando la peste giunse nelle città europee, trovò un terreno fertile per attecchire e diffondersi.

La peste è una malattia che aveva già colpito duramente nell’antichità e durante il Medioevo, ma non aveva mai avuto, fino ad allora, una simile violenza e una tale estensione.

A moltiplicare la virulenza del contagio contribuirono gli effetti della crisi economica. Nelle città, masse di diseredati e di disperati cercavano espedienti per sopravvivere. Le condizioni igienico sanitarie dei centri urbani divennero drammatiche e la malattia si propagò con rapidità.

Bisogna  inoltre ricordare che anche nel Trecento l’Europa era percorsa da una vasta e capillare rete commerciale: le stesse vie di comunicazione su cui viaggiavano le merci e i corrieri, si rivelarono un ottimo veicolo per il bacillo della peste, che si diffuse rapidamente ovunque con pochissime eccezioni.

Le principali rotte commerciali delle repubbliche marinare di Venezia e di Genova. La ripresa degli scambi commerciali del basso medioevo fu una delle cause principali della diffusione della peste nera.
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La diffusione del contagio

Dalle ricostruzioni storiografiche sembra che la peste sia arrivata in Europa dalle regioni asiatiche. Nelle terre dei Mongoli la malattia era presente tra le popolazione tartare.

Nel 1347 i tartari tenevano sotto assedio la colonia genovese di Caffa sul Mar Nero. Per piegare la resistenza della città, con un’operazione che oggi definiremmo di guerra batteriologica, gli assedianti lanciarono oltre le mura i cadaveri degli appestati. Il contagio si diffuse quindi nella colonia genovese. Alcuni genovesi cercarono di scappare attraverso il mare per  sfuggire all’assedio.

L’espansione della repubblica di Genova
Immagine di Kayac1971 – Codex Parisinus latinus (1395) in Ph. Lauer, Catalogue des manuscrits latins, pp.95-6, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=12865417

Purtroppo però portarono con sé la peste e la sbarcarono insieme alle merci nei porti europei dove attaccarono con le loro navi. La prima città toccata fu la città di Messina, Poi fu la volta di Genova e di Marsiglia. Da lì la malattia si diffuse lungo i grandi assi viari nelle regioni più popolate d’Europa. Si è calcolato che la malattia percorreva tra i 30 e i 130 km al mese. Alla fine del 1348 l’epidemia ormai aveva interessato tutto il continente. 

Gli effetti dell’epidemia furono disastrosi. Si calcola che la popolazione dell’Europa medievale sia stata ridotta di un terzo, ma in molte regioni venne dimezzata. Nei documenti dei contemporanei emerge la gravità di questa catastrofe.

La testimonianza di Giovanni Boccaccio

Dall’introduzione al Decameron di Giovanni Boccaccio
Testo tradotto dall’originale in linguaggio corrente

Situazione di Firenze
Il contagio dilaga

Dico, dunque, che si era giunti all’anno 1348 dalla nascita di Cristo, quando nella città di Firenze e nelle altre bellissime città d’Italia, giunse la terribile pestilenza, che fu mandata come punizione sui mortali, per opera degli astri celesti o per la giusta ira di Dio, a causa delle nostre opere inique.
Era incominciata alcuni anni prima in Oriente, aveva provocato la morte di innumerevoli esseri viventi. Senza fermarsi, la pestilenza si spostò, ampliandosi, verso Occidente.
A nulla valsero la prudenza e i provvedimenti presi per motivi sanitari, in base ai quali fu pulita dalle immondizie tutta la città, ad opera di ufficiali incaricati a tale scopo, né servì il divieto per gli ammalati di entrare in città.
A nulla servirono le preghiere rivolte a Dio da persone devote, né le processioni.
All’inizio della primavera la pestilenza cominciò a dimostrare i suoi terribili effetti.

Come si manifesta la malattia
Essa, mentre in Oriente si era manifestata con fuoriuscita di sangue dal naso, che portava irrimediabilmente alla morte, in Occidente si manifestò diversamente.
Inizialmente, sia ai maschi che alle femmine, comparivano dei rigonfiamenti all’inguine e sotto le ascelle, alcuni crescevano come una comune mela, altri come un uovo che venivano chiamati “gavoccioli”.
In breve tempo questi gavoccioli mortiferi si diffondevano in tutte le parti del corpo, successivamente si manifestavano macchie nere o livide, alcune più grandi, altre più piccole.
Esse, come i gavoccioli, erano indizio di sicura morte.
Per queste malattie non serviva nessun consiglio di medico e nessuna medicina, sebbene il numero dei medici fosse grandissimo.
Solo pochissimi guarivano, quasi tutti morivano al terzo giorno dalla comparsa di questi segni, con o senza febbre.
La peste passava dagli infermi ai sani, come fa il fuoco con le cose secche o unte, che gli sono vicine.
Si ammalano anche gli animali
Il contagio si diffondeva non solo se si parlava o si stava vicino agli infermi, ma anche se si toccavano i panni o qualsiasi cosa che era stata da loro usata.
E devo dire un’altra cosa terribile di questa pestilenza: essa attaccava non solo gli uomini tra loro, ma passava anche dagli uomini agli animali e li uccideva in brevissimo tempo.
Vidi con i miei occhi che, essendo stati gettati in mezzo alla strada gli stracci di un pover’uomo morto di tale infermità, due porci, prima col muso e poi con i denti, li afferrarono e vi si avvolsero.
Dopo appena un’ora i porci caddero a terra morti.

Le diverse reazioni dei fiorentini
Così i vivi pensarono bene di scappare dagli infermi e di lasciare le loro cose, sperando, in tal modo, di acquistare salute.
Alcuni ritenevano che vivere con moderazione, senza cose superflue, li avrebbe protetti dalla peste e, costituita una brigata, vivevano isolati nelle case in cui non c’era alcun malato, mangiando cibi delicatissimi, bevendo vini leggeri e profumati, evitando ogni lussuria e non parlando né di morti, né di infermi.
Altri, di opinione contraria, preferivano bere molto e godere, mangiare smodatamente, beffandosi di ogni cura e medicina, andando in giro per taverne, facendo solo ciò che arrecasse loro piacere, e, certi di non dover più vivere a lungo, abbandonavano le loro case. Per questo molte case erano state abbandonate ed erano occupate da estranei, a volte anche ammalati.
In tanta miseria, nella città le leggi non avevano più autorità perché i ministri o gli esecutori di esse o erano morti o giacevano infermi, per cui non potevano attendere ai propri doveri. Per questo tutti facevano quello che volevano, senza alcun rispetto delle leggi.
Altri, ancora, seguivano una via di mezzo tra i due estremi.
Bevevano e mangiavano moderatamente, usavano le cose, senza rinchiudersi, andavano in giro portando nelle mani fiori e spezie odorose, avvicinandole continuamente al naso, per vincere il puzzo dei morti, dei malati e delle medicine.

Altri, ancora, ritenevano che la cosa migliore fosse abbandonare la propria città ed andare nel contado, in periferia, pensando che la pestilenza colpisse solo chi abitava in città.

Saltano anche le relazioni sociali
Ormai ogni cittadino evitava l’altro non avendo cura dei parenti, sia gli uomini che le donne.
Un fratello abbandonava l’altro e spesso la donna abbandonava il marito, e i padri e le madri, cosa terribile, abbandonavano i figli, quasi come se non fossero propri, e si rifiutavano di accudirli. Perciò quelli che si ammalavano non avevano alcun aiuto, se non la carità degli amici, in verità molto pochi, e l’avidità dei servitori.
Essi non facevano altro che porgere agli ammalati alcune cose da loro richieste o guardare quando morivano, e, anche così, spesso perdevano sé stessi insieme con il guadagno, perché morivano per il contagio.
Per l’abbandono da parte dei parenti e degli amici, si diffuse una consuetudine mai udita prima, per cui una donna, anche se leggiadra e bella, se si ammalava, prendeva a suo servizio un uomo. A lui si affidava per tutte le cure e le incombenze, anche le più intime, che la sua malattia richiedeva. Questo comportamento, per le donne che sopravvissero, fu causa di comportamenti di minore onestà per tali donne.
E poiché morirono tantissime persone, quelle che sopravvissero, fecero cose contrarie agli onesti costumi di prima.
Vengono a mancare i riti religiosi
Era usanza che le donne parenti o vicine di casa del morto si riunissero e piangessero, così pure i vicini e gli amici si radunassero davanti alla casa e poi veniva un rappresentante del clero che portava il morto nella Chiesa che egli aveva, precedentemente, indicato.
Man mano che la pestilenza divenne più feroce, queste usanze cambiarono.
Molti morivano da soli, senza alcun conforto o pianto dei congiunti e non potevano essere trasportati nella chiesa che avevano scelto.
Venivano, invece, prelevati da persone che venivano pagate, chiamate “beccamorti” o “becchini”, di umile origine. Dopo aver messo i cadaveri nella bara, li portavano nella chiesa più vicina.
Nelle chiese c’erano pochi chierici che, rapidamente, senza lunghi e solenni offici, con l’aiuto dei becchini, li seppellivano in qualche tomba ancora vuota.
 
La gente umile stava ancora peggio. Poiché non aveva potuto lasciare la propria casa, che spesso era abitata da molte persone, dove il contagio si diffondeva molto più rapidamente, non aveva alcun aiuto e tutti morivano.
I vicini, temendo per sé, gettavano i corpi dei morti o degli infermi nella strada.
I vicini, da soli o con l’aiuto di alcuni portatori, tiravano fuori i morti, li ponevano davanti agli usci e facevano venire le bare. Ben presto le bare furono insufficienti. Allora misero molti cadaveri in una sola bara.


I preti, nel seppellirli, sotto una sola croce misero sei o otto morti, senza che essi fossero onorati da alcuna lacrima, lume o compagnia.
I morti venivano trattati come capre.
Man mano che la moltitudine dei cadaveri aumentava, non fu possibile seppellirli in terra sacra, nelle chiese, secondo l’antica consuetudine; si scavarono, allora, delle grandissime fosse comuni dove si misero, a centinaia, i morti, fino a quando ogni fossa non veniva riempita, poi si ricopriva con poca terra.
Anche nella periferia della città le cose non andarono meglio, anche lì i poveri, con le loro famiglie, morivano come bestie, abbandonando i sani costumi antichi e i loro animali, buoi, asini, pecore, capre, porci, polli e cani, fedelissimi agli uomini.
Gli animali andavano in giro per la campagna, nutrendosi a sazietà, senza controllo, e, a sera, ritornavano a casa spontaneamente.
Dunque, ritornando alla città di Firenze, si può dire che, tra il marzo e il luglio del 1348, morirono più di centomila creature umane.
Ahimè, quanti palazzi e belle case, in precedenza pieni di nobili famiglie, rimasero vuoti.
In poco tempo la città divenne quasi vuota.
 
Le bare dei defunti di peste e Il trionfo della morte Del Maestro del Trionfo della Morte – book: Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari, I tempi dell’arte, volume 2, Bompiani, Milano 1999., Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2372742

 Alla ricerca del colpevole

Di fronte alla manifestazione catastrofica dell’epidemia nessun rimedio era efficace. Nella disperata ricerca di dare una spiegazione a quanto stava accadendo ripresero vigore le credenze sulle forze demoniache che agivano nel mondo.

Come era accaduto già molte volte in circostanze simili e come sarebbe accaduto ancora in futuro, la responsabilità di un simile flagello venne attribuita o alle colpe degli uomini, di cui la peste sarebbe stata la punizione, o all’azione malefica di forze ostili. Chi cercava le forze ostili non doveva fare un grande sforzo di fantasia per trovare qualcuno a cui quel ruolo si adattava perfettamente.

Gli ebrei infatti erano i nemici dichiarati dei Cristiani: come erano riusciti ad uccidere Gesù Cristo così potevano voler uccidere tutti i cristiani. Erano  quindi certi che gli ebrei, per conto di Satana, diffondevano il morbo nell’aria e avvelenavano le acque per diffondere la pestilenza.

In base a questo principio in Francia in Svizzera è in Germania ci fu chi era pronto a giurare di aver visto gli ebrei diffondere droghe malefiche e veleni pestiferi. qualcuno, sotto tortura confessò ciò che gli si voleva far confessare e il fanatismo o polare fece il resto.

Tutti gli ebrei di Strasburgo, 2000 persone circa, furono bruciati nel cimitero di Strasburgo Nel febbraio del 1349 dopo che il comune della città li aveva dichiarati colpevoli. purtroppo questo non fu l’unico episodio ma ne accaddero altri in diverse città europee. è impossibile stabilire le cifre di questo massacro.

l’epidemia nella fase acuta si esaurisce Nel biennio 1348 1349. in seguito il contagio rimase presente in forma endemico e si riaccese a intervalli periodici. Non ebbe più quelle dimensioni massicce e generalizzate che avevano determinato in pochi mesi il crollo verticale della popolazione europea.

Quella che appare ancora oggi come una delle più grandi tragedie della storia, contribuì a invertire la spirale della recessione economica che si era manifestata tra il Duecento e il Trecento. Infatti la riduzione della popolazione rimise in equilibrio il rapporto tra popolazione e risorse. Tale ripresa tuttavia non fu né semplice né rapida anche perché dopo la fine della grande epidemia continuarono a essere presenti gravi fattori di instabilità come la guerra dei Cent’anni.