Dante è il più importante autore della letteratura italiana e la Divina Commedia, può essere considerata una delle opere più autorevoli della cultura occidentale.
Dante Alighieri nasce a Firenze nel 1265. All’età di 9 anni incontra Beatrice, la fanciulla che segnerà indelebilmente la sua vita. La incontra di nuovo nove anni dopo, quando lei, per la prima volta, lo saluta. Questo cenno si imprime nel cuore del poeta, che se ne innamora, perdutamente.
La famiglia, come era consuetudine, gli aveva già destinato una moglie e a 20 anni, Dante sposa Gemma Donati, figlia di un importante esponente della nobiltà fiorentina.
In questi anni scrive alcune opere, la più importante delle quali è La vita nova. In essa il poeta celebra il suo amore per Beatrice, morta a 24 anni; conclude dichiarando che non scriverà più di lei fino a quando non potrà parlarne in maniera più degna.
La famiglia di Dante appartiene alla piccola nobiltà in un tempo in cui si contendono il potere nei comuni italiani i guelfi e i ghibellini: due partiti che si schierano l’uno dalla parte del papa e l’altra da quella dell’imperatore. Ma, quando i ghibellini vengono sconfitti, i guelfi fiorentini, non riuscendo comunque ad andare d’accordo, si dividono in Bianchi, che non vogliono l’ingerenza del papa nella politica di Firenze, e Neri, supportati dal papato. Dante si schiera dalla parte dei Bianchi.
Verso la fine del Duecento il poeta inizia una brillante carriera politica che lo porta ad essere prima nel Consiglio del Popolo e poi nel Consiglio dei Savi. Nel 1300 viene addirittura eletto, per un bimestre, all’alta carica di Priore.
La sua carriera folgorante però è destinata a concludersi presto. Infatti nel 1301 Dante viene inviato a Roma, assieme ad altri esponenti di parte bianca, per parlare col papa Bonifacio VIII, ma il pontefice fa il doppio gioco. Mentre a Roma il papa parla con i Bianchi, a Firenze i Neri prendono il potere con l’approvazione papale.
I rappresentanti dei Bianchi che erano a Roma vengono dichiarati fuorilegge, quelli che sono a Firenze vengono cacciati. Dante viene ingiustamente accusato di baratteria; non farà più ritorno nella sua amata patria!
Il nuovo secolo segna quindi per Dante l’inizio di una nuova vita all’insegna della scrittura nelle varie corti della penisola. Muore a Ravenna nel 1321 senza aver più rivisto Firenze.
Tra il 1301 e il 1306 inizia a scrivere le opere che lo consacrano padre della lingua italiana.
Il De vulgari eloquenza è un trattato scritto in latino. L’intenzione del poeta è quella di spiegare al pubblico colto, le potenzialità nella nuova lingua: il volgare è ormai una lingua matura al punto da poter affrontare qualsiasi argomento.
Anche il Convivio è trattato scritto invece in volgare. Il titolo rinvia all’idea della festa, della condivisione. Dante infatti si pone come un esperto padrone di casa che apre le porte del suo sapere e invita ognuno di noi alla tavola della conoscenza. Vuole che ogni cittadino possa nutrire la sua anima al banchetto della sapienza e della cultura.
Ma entrambe le opere rimangono incompiute forse perché intorno al 1306 inizia a scrivere la sua opera più importante, la Divina Commedia.
Il poeta racconta di aver viaggiato nei tre regni dell’oltretomba medievale: Inferno Purgatorio e Paradiso.
Il viaggio inizia nella paura: il poeta si è perso nella Selva oscura, un luogo da cui non è mai uscita anima viva. Quando sta per farsi cogliere dalla disperazione, arriva dall’alto un aiuto insperato. Tre donne, che stanno in Paradiso, si muovono in suo soccorso: la Madonna, santa Lucia e Beatrice. Ecco dunque che ritroviamo la donna amata, quella di cui aveva smesso di parlare nella Vita nova. Lei è in Paradiso. Ed è in virtù dell’amore per lei che Dante compie quel viaggio straordinario: è l’amore per Beatrice che lo porta a riconoscere i suoi errori, a purificarsi e così ad elevare il suo animo.
La Divina commedia ha avuto da subito un successo straordinario per diversi motivi.
Innanzitutto le parole di Dante sono “vere”, sono dotate di verità. Raccontano infatti di unviaggio che l’uomo Dante ha percorso, un cammino all’interno del suo Inferno personale, che è simile all’inferno che ogni uomo incontra in qualche fase della vita.
Il poeta è stato cacciato dalla sua terra, dalla sua gente. Quanti uomini e donne oggi hanno dovuto lasciare case e affetti? Dante ci racconta il suo sentire, tra le inevitabili paure che lo assalgono e le risorse di cui dispone: uno stato d’animo che è comune all’uomo di ieri e a quello di oggi.
Nell’Inferno e nel Purgatorio il poeta incontra i vizi e le virtù degli uomini, modelli negativi e modelli positivi. In questa alternanza tra bene e male, Dante ci mostra che ogni estremismo è sempre sbagliato.
Nell’Inferno ci indica la cristallizzazione del male, i rischi di chi persevera nell’errore e non si assume la responsabilità dei propri sbagli.
Nel Purgatorio invece insegna che qualsiasi colpa può essere espiata, quando si è disposti a farsi carico degli errori commessi, e, per aiutare i penitenti, la Somma Sapienza ha posto degli angeli virtuosi che indicano le virtù necessarie per uscire dal peccato.
Il percorso di purificazione porta poi tutte le anime in Paradiso, nella pace, nella beatitudine suprema.
Ma un simile viaggio non si può compiere in solitudine. Nessun uomo potrà mai riuscire ad affrontare i propri demoni da solo: c’è bisogno di una guida, un buon padre, un maestro. Così il poeta è affiancato da Virgilio prima, da Beatrice e San Bernardo poi. Quando affrontiamo i nostri demoni abbiamo bisogno di aiuto, per non soccombere, per imparare, per voltar pagina. Il maestro è colui che sa dire la parola giusta al momento giusto, che indica la via da intraprendere, ma che lascia che il discepolo sbagli e acquisisca l’esperienza necessaria.
Tutto questo si può imparare attraverso il viaggio di Dante.
Il Sommo poeta inoltre ci sprona ad essere umili e a chiedere aiuto: quando da soli non ce la facciamo, con un Maestro possiamo arrivare fino al fondo buio del nostro personale inferno, per poi tornar su a riveder le stelle.
Nel viaggio Dante ci fa incontrare animi grandi, i magnanimi, ci mostra cioè la grandezza dell’animo umano. E in questo mostrarci la magnanimità altrui, ci mette in contatto con la nostra. Tutti noi abbiamo un animo grande, un animo forte e saggio. Basta solo che ce lo ricordiamo. Basta solo che noi prendiamo contatto con questa nostra dimensione, che lo ricerchiamo perché spesso è solo nascosto sotto le nostre piccole meschinità.
Ma abbiamo bisogno solo di riappropriarcene per ritrovare in noi quella grandezza che sappiamo ammirare negli altri.
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Nel XXI canto si presentano le pene di chi si è macchiato di baratteria, di chi cioè ha curato i propri interessi mentre avrebbe divuto prendersi cura del bene comune.
Qui si incontrano dieci demoni che hanno il compito di gestire questa bolgia.
Così di ponte in ponte, altro parlando che la mia comedìa cantar non cura, venimmo; e tenavamo ’l colmo, quando3
restammo per veder l’altra fessura di Malebolge e li altri pianti vani; e vidila mirabilmente oscura.6
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani bolle l’inverno la tenace pece a rimpalmare i legni lor non sani,9
ché navicar non ponno – in quella vece chi fa suo legno novo e chi ristoppa le coste a quel che più vïaggi fece;12
chi ribatte da proda e chi da poppa; altri fa remi e altri volge sarte; chi terzeruolo e artimon rintoppa -:15
tal, non per foco ma per divin’arte, bollia là giuso una pegola spessa, che ’nviscava la ripa d’ogne parte.18
I’ vedea lei, ma non vedëa in essa mai che le bolle che ’l bollor levava, e gonfiar tutta, e riseder compressa.21
Mentr’io là giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”, mi trasse a sé del loco dov’io stava.24
Allor mi volsi come l’uom cui tarda di veder quel che li convien fuggire e cui paura sùbita sgagliarda,27
che, per veder, non indugia ’l partire: e vidi dietro a noi un diavol nero correndo su per lo scoglio venire.30
Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero! e quanto mi parea ne l’atto acerbo, con l’ali aperte e sovra i piè leggero!33
L’omero suo, ch’era aguto e superbo, carcava un peccator con ambo l’anche, e quei tenea de’ piè ghermito ’l nerbo.36
Del nostro ponte disse: “O Malebranche, ecco un de li anzïan di Santa Zita! Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche39
a quella terra, che n’è ben fornita: ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo; del no, per li denar, vi si fa ita”.42
Là giù ’l buttò, e per lo scoglio duro si volse; e mai non fu mastino sciolto con tanta fretta a seguitar lo furo.45
Quel s’attuffò, e tornò sù convolto; ma i demon che del ponte avean coperchio, gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto!48
qui si nuota altrimenti che nel Serchio! Però, se tu non vuo’ di nostri graffi, non far sopra la pegola soverchio”.51
Poi l’addentar con più di cento raffi, disser: “Coverto convien che qui balli, sì che, se puoi, nascosamente accaffi”.54
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia la carne con li uncin, perché non galli.57
Lo buon maestro “Acciò che non si paia che tu ci sia”, mi disse, “giù t’acquatta dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia;60
e per nulla offension che mi sia fatta, non temer tu, ch’i’ ho le cose conte, perch’altra volta fui a tal baratta”.63
Poscia passò di là dal co del ponte; e com’el giunse in su la ripa sesta, mestier li fu d’aver sicura fronte.66
Con quel furore e con quella tempesta ch’escono i cani a dosso al poverello che di sùbito chiede ove s’arresta,69
usciron quei di sotto al ponticello, e volser contra lui tutt’i runcigli; ma el gridò: “Nessun di voi sia fello!72
Innanzi che l’uncin vostro mi pigli, traggasi avante l’un di voi che m’oda, e poi d’arruncigliarmi si consigli”.75
Tutti gridaron: “Vada Malacoda!”; per ch’un si mosse – e li altri stetter fermi – e venne a lui dicendo: “Che li approda?”.78
“Credi tu, Malacoda, qui vedermi esser venuto”, disse ’l mio maestro, “sicuro già da tutti vostri schermi,81
sanza voler divino e fato destro? Lascian’andar, ché nel cielo è voluto ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro”.84
Allor li fu l’orgoglio sì caduto, ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi, e disse a li altri: “Omai non sia feruto”.87
E ’l duca mio a me: “O tu che siedi tra li scheggion del ponte quatto quatto, sicuramente omai a me ti riedi”.90
Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto; e i diavoli si fecer tutti avanti, sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;93
così vid’ïo già temer li fanti ch’uscivan patteggiati di Caprona, veggendo sé tra nemici cotanti.96
I’ m’accostai con tutta la persona lungo ’l mio duca, e non torceva li occhi da la sembianza lor ch’era non buona.99
Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ’l tocchi”, diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”. E rispondien: “Sì, fa che gliel’accocchi”.102
Ma quel demonio che tenea sermone col duca mio, si volse tutto presto e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”.105
Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo iscoglio non si può, però che giace tutto spezzato al fondo l’arco sesto.108
E se l’andare avante pur vi piace, andatevene su per questa grotta; presso è un altro scoglio che via face.111
Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’otta, mille dugento con sessanta sei anni compié che qui la via fu rotta.114
Io mando verso là di questi miei a riguardar s’alcun se ne sciorina; gite con lor, che non saranno rei”.117
“Tra’ ti avante, Alichino, e Calcabrina”, cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina.120
Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo, Cirïatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo.123
Cercate ’ntorno le boglienti pane; costor sian salvi infino a l’altro scheggio che tutto intero va sovra le tane”.126
“Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?”, diss’io, “deh, sanza scorta andianci soli, se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio.129
Se tu se’ sì accorto come suoli, non vedi tu ch’e’ digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli?”.132
Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi; lasciali digrignar pur a lor senno, ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti”.135
Per l’argine sinistro volta dienno; ma prima avea ciascun la lingua stretta coi denti, verso lor duca, per cenno;138
ed elli avea del cul fatto trombetta.
Canto 22
Nel XXII canto Dante e Virgilio proseguono il cammino attraverso la quinta bolgia, dei fraudolenti, accompagnati dai demoni guidati da Barbariccia.
I due assistono anche alla cattura di Ciampòlo, che riesce a sfuggire ai demoni rituffandosi nella pece, e al bagno di due diavoli nella pece bollente.
Io vidi già cavalier muover campo, e cominciare stormo e far lor mostra, e talvolta partir per loro scampo;3
corridor vidi per la terra vostra, o Aretini, e vidi gir gualdane, fedir torneamenti e correr giostra;6
quando con trombe, e quando con campane, con tamburi e con cenni di castella, e con cose nostrali e con istrane;9
né già con sì diversa cennamella cavalier vidi muover né pedoni, né nave a segno di terra o di stella.12
Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni.15
Pur a la pegola era la mia ’ntesa, per veder de la bolgia ogne contegno e de la gente ch’entro v’era incesa.18
Come i dalfini, quando fanno segno a’ marinar con l’arco de la schiena che s’argomentin di campar lor legno,21
talor così, ad alleggiar la pena, mostrav’alcun de’ peccatori ’l dosso e nascondea in men che non balena.24
E come a l’orlo de l’acqua d’un fosso stanno i ranocchi pur col muso fuori, sì che celano i piedi e l’altro grosso,27
sì stavan d’ogne parte i peccatori; ma come s’appressava Barbariccia, così si ritraén sotto i bollori.30
I’ vidi, e anco il cor me n’accapriccia, uno aspettar così, com’elli ’ncontra ch’una rana rimane e l’altra spiccia;33
e Graffiacan, che li era più di contra, li arruncigliò le ’mpegolate chiome e trassel sù, che mi parve una lontra.
I’ sapea già di tutti quanti ’l nome, sì li notai quando fuorono eletti, e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.39
“O Rubicante, fa che tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”, gridavan tutti insieme i maladetti.42
E io: “Maestro mio, fa, se tu puoi, che tu sappi chi è lo sciagurato venuto a man de li avversari suoi”.45
Lo duca mio li s’accostò allato; domandollo ond’ei fosse, e quei rispuose: “I’ fui del regno di Navarra nato.48
Mia madre a servo d’un segnor mi puose, che m’avea generato d’un ribaldo, distruggitor di sé e di sue cose.51
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo; quivi mi misi a far baratteria, di ch’io rendo ragione in questo caldo”.54
E Cirïatto, a cui di bocca uscia d’ogne parte una sanna come a porco, li fé sentir come l’una sdruscia.57
Tra male gatte era venuto ’l sorco; ma Barbariccia il chiuse con le braccia e disse: “State in là, mentr’io lo ’nforco”.60
E al maestro mio volse la faccia; “Domanda”, disse, “ancor, se più disii saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia”.63
Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii conosci tu alcun che sia latino sotto la pece?”. E quelli: “I’ mi partii,66
poco è, da un che fu di là vicino. Così foss’io ancor con lui coperto, ch’i’ non temerei unghia né uncino!”.69
E Libicocco “Troppo avem sofferto”, disse; e preseli ’l braccio col runciglio, sì che, stracciando, ne portò un lacerto.72
Draghignazzo anco i volle dar di piglio giuso a le gambe; onde ’l decurio loro si volse intorno intorno con mal piglio.75
Quand’elli un poco rappaciati fuoro, a lui, ch’ancor mirava sua ferita, domandò ’l duca mio sanza dimoro:78
“Chi fu colui da cui mala partita di’ che facesti per venire a proda?”. Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,81
quel di Gallura, vasel d’ogne froda, ch’ebbe i nemici di suo donno in mano, e fé sì lor, che ciascun se ne loda.84
Danar si tolse e lasciolli di piano, sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano.87
Usa con esso donno Michel Zanche di Logodoro; e a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche.90
Omè, vedete l’altro che digrigna; i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello non s’apparecchi a grattarmi la tigna”.93
E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello che stralunava li occhi per fedire, disse: “Fatti ’n costà, malvagio uccello!”.96
“Se voi volete vedere o udire”, ricominciò lo spaürato appresso, “Toschi o Lombardi, io ne farò venire;99
ma stieno i Malebranche un poco in cesso, sì ch’ei non teman de le lor vendette; e io, seggendo in questo loco stesso,102
per un ch’io son, ne farò venir sette quand’io suffolerò, com’è nostro uso di fare allor che fori alcun si mette”.105
Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso, crollando ’l capo, e disse: “Odi malizia ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”.108
Ond’ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia, rispuose: “Malizioso son io troppo, quand’io procuro a’ mia maggior trestizia”.111
Alichin non si tenne e, di rintoppo a li altri, disse a lui: “Se tu ti cali, io non ti verrò dietro di gualoppo,114
ma batterò sovra la pece l’ali. Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo, a veder se tu sol più di noi vali”.117
O tu che leggi, udirai nuovo ludo: ciascun da l’altra costa li occhi volse, quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.120
Lo Navarrese ben suo tempo colse; fermò le piante a terra, e in un punto saltò e dal proposto lor si sciolse.123
Di che ciascun di colpa fu compunto, ma quei più che cagion fu del difetto; però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”.126
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto non potero avanzar; quelli andò sotto, e quei drizzò volando suso il petto:129
non altrimenti l’anitra di botto, quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa, ed ei ritorna sù crucciato e rotto.132
Irato Calcabrina de la buffa, volando dietro li tenne, invaghito che quei campasse per aver la zuffa;135
e come ’l barattier fu disparito, così volse li artigli al suo compagno, e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.138
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno ad artigliar ben lui, e amendue cadder nel mezzo del bogliente stagno.141
Lo caldo sghermitor sùbito fue; ma però di levarsi era neente, sì avieno inviscate l’ali sue.144
Barbariccia, con li altri suoi dolente, quattro ne fé volar da l’altra costa con tutt’i raffi, e assai prestamente147
di qua, di là discesero a la posta; porser li uncini verso li ’mpaniati, ch’eran già cotti dentro da la crosta.150
E noi lasciammo lor così ’mpacciati.
Canto 23
Nel XXIII canto Dante e Virgilio attraversano la sesta bolgia dove sono puniti gli ipocriti.
Questi sono obbligati a camminare sotto pesantissime cappe di piombo.
Taciti, soli, sanza compagnia n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come frati minor vanno per via.3
Vòlt’era in su la favola d’Isopo lo mio pensier per la presente rissa, dov’el parlò de la rana e del topo;6
ché più non si pareggia ’mo’ e ’issa’ che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia principio e fine con la mente fissa.9
E come l’un pensier de l’altro scoppia, così nacque di quello un altro poi, che la prima paura mi fé doppia.12
Io pensava così: ’Questi per noi sono scherniti con danno e con beffa sì fatta, ch’assai credo che lor nòi.15
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa, ei ne verranno dietro più crudeli che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa’.18
Già mi sentia tutti arricciar li peli de la paura e stava in dietro intento, quand’io dissi: “Maestro, se non celi21
te e me tostamente, i’ ho pavento d’i Malebranche. Noi li avem già dietro; io li ’magino sì, che già li sento”.24
E quei: “S’i’ fossi di piombato vetro, l’imagine di fuor tua non trarrei più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.27
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei, con simile atto e con simile faccia, sì che d’intrambi un sol consiglio fei.30
S’elli è che sì la destra costa giaccia, che noi possiam ne l’altra bolgia scendere, noi fuggirem l’imaginata caccia”.33
Già non compié di tal consiglio rendere, ch’io li vidi venir con l’ali tese non molto lungi, per volerne prendere.36
Lo duca mio di sùbito mi prese, come la madre ch’al romore è desta e vede presso a sé le fiamme accese,39
che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura, tanto che solo una camiscia vesta;42
e giù dal collo de la ripa dura supin si diede a la pendente roccia, che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.45
Non corse mai sì tosto acqua per doccia a volger ruota di molin terragno, quand’ella più verso le pale approccia,48
come ’l maestro mio per quel vivagno, portandosene me sovra ’l suo petto, come suo figlio, non come compagno.51
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle sovresso noi; ma non lì era sospetto:54
ché l’alta provedenza che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs’indi a tutti tolle.57
Là giù trovammo una gente dipinta che giva intorno assai con lenti passi, piangendo e nel sembiante stanca e vinta.60
Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi, fatte de la taglia che in Clugnì per li monaci fassi.63
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto, che Federigo le mettea di paglia.66
Oh in etterno faticoso manto! Noi ci volgemmo ancor pur a man manca con loro insieme, intenti al tristo pianto;69
ma per lo peso quella gente stanca venìa sì pian, che noi eravam nuovi di compagnia ad ogne mover d’anca.72
Per ch’io al duca mio: “Fa che tu trovi alcun ch’al fatto o al nome si conosca, e li occhi, sì andando, intorno movi”.75
E un che ’ntese la parola tosca, di retro a noi gridò: “Tenete i piedi, voi che correte sì per l’aura fosca!78
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi”. Onde ’l duca si volse e disse: “Aspetta, e poi secondo il suo passo procedi”.81
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta de l’animo, col viso, d’esser meco; ma tardavali ’l carco e la via stretta.84
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco mi rimiraron sanza far parola; poi si volsero in sé, e dicean seco:87
“Costui par vivo a l’atto de la gola; e s’e’ son morti, per qual privilegio vanno scoperti de la grave stola?”.90
Poi disser me: “O Tosco, ch’al collegio de l’ipocriti tristi se’ venuto, dir chi tu se’ non avere in dispregio”.93
E io a loro: “I’ fui nato e cresciuto sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa, e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.96
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla quant’i’ veggio dolor giù per le guance? e che pena è in voi che sì sfavilla?”.99
E l’un rispuose a me: “Le cappe rance son di piombo sì grosse, che li pesi fan così cigolar le lor bilance.102
Frati godenti fummo, e bolognesi; io Catalano e questi Loderingo nomati, e da tua terra insieme presi105
come suole esser tolto un uom solingo, per conservar sua pace; e fummo tali, ch’ancor si pare intorno dal Gardingo”.108
Io cominciai: “O frati, i vostri mali…”; ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse un, crucifisso in terra con tre pali.111
Quando mi vide, tutto si distorse, soffiando ne la barba con sospiri; e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,114
mi disse: “Quel confitto che tu miri, consigliò i Farisei che convenia porre un uom per lo popolo a’ martìri.117
Attraversato è, nudo, ne la via, come tu vedi, ed è mestier ch’el senta qualunque passa, come pesa, pria.120
E a tal modo il socero si stenta in questa fossa, e li altri dal concilio che fu per li Giudei mala sementa”.123
Allor vid’io maravigliar Virgilio sovra colui ch’era disteso in croce tanto vilmente ne l’etterno essilio.126
Poscia drizzò al frate cotal voce: “Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci s’a la man destra giace alcuna foce129
onde noi amendue possiamo uscirci, sanza costrigner de li angeli neri che vegnan d’esto fondo a dipartirci”.132
Rispuose adunque: “Più che tu non speri s’appressa un sasso che da la gran cerchia si move e varca tutt’i vallon feri,135
salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia; montar potrete su per la ruina, che giace in costa e nel fondo soperchia”.138
Lo duca stette un poco a testa china; poi disse: “Mal contava la bisogna colui che i peccator di qua uncina”.141
E ’l frate: “Io udi’ già dire a Bologna del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’ ch’elli è bugiardo e padre di menzogna”.144
Appresso il duca a gran passi sen gì, turbato un poco d’ira nel sembiante; ond’io da li ’ncarcati mi parti’147
dietro a le poste de le care piante.
Canto 24
Nel XXIV canto Dante e Virgilio incontrano una serie di ladri. Dante lancia un’invettiva contro Pistoia città che ha dato i natali a molti di loro.
Vanni Pucci, un ladro pistoiese fa una profezia relativa all’avvicendamento tra guelfi bianchi e neri. E dice questo con la sola intenzione di ferire il poeta.
In quella parte del giovanetto anno che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra e già le notti al mezzo dì sen vanno,3
quando la brina in su la terra assempra l’imagine di sua sorella bianca, ma poco dura a la sua penna tempra,6
lo villanello a cui la roba manca, si leva, e guarda, e vede la campagna biancheggiar tutta; ond’ei si batte l’anca,9
ritorna in casa, e qua e là si lagna, come ’l tapin che non sa che si faccia; poi riede, e la speranza ringavagna,12
veggendo ’l mondo aver cangiata faccia in poco d’ora, e prende suo vincastro e fuor le pecorelle a pascer caccia.15
Così mi fece sbigottir lo mastro quand’io li vidi sì turbar la fronte, e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;18
ché, come noi venimmo al guasto ponte, lo duca a me si volse con quel piglio dolce ch’io vidi prima a piè del monte.21
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio eletto seco riguardando prima ben la ruina, e diedemi di piglio.24
E come quei ch’adopera ed estima, che sempre par che ’nnanzi si proveggia, così, levando me sù ver’ la cima27
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa; ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia”.30
Non era via da vestito di cappa, ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, potavam sù montar di chiappa in chiappa.33
E se non fosse che da quel precinto più che da l’altro era la costa corta, non so di lui, ma io sarei ben vinto.36
Ma perché Malebolge inver’ la porta del bassissimo pozzo tutta pende, lo sito di ciascuna valle porta39
che l’una costa surge e l’altra scende; noi pur venimmo al fine in su la punta onde l’ultima pietra si scoscende.42
La lena m’era del polmon sì munta quand’io fui sù, ch’i’ non potea più oltre, anzi m’assisi ne la prima giunta.45
“Omai convien che tu così ti spoltre”, disse ’l maestro; “ché, seggendo in piuma, in fama non si vien, né sotto coltre;48
sanza la qual chi sua vita consuma, cotal vestigio in terra di sé lascia, qual fummo in aere e in acqua la schiuma.51
E però leva sù; vinci l’ambascia con l’animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia.54
Più lunga scala convien che si saglia; non basta da costoro esser partito. Se tu mi ’ntendi, or fa sì che ti vaglia”.57
Leva’ mi allor, mostrandomi fornito meglio di lena ch’i’ non mi sentia, e dissi: “Va, ch’i’ son forte e ardito”.60
Su per lo scoglio prendemmo la via, ch’era ronchioso, stretto e malagevole, ed erto più assai che quel di pria.63
Parlando andava per non parer fievole; onde una voce uscì de l’altro fosso, a parole formar disconvenevole.66
Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso fossi de l’arco già che varca quivi; ma chi parlava ad ire parea mosso.69
Io era vòlto in giù, ma li occhi vivi non poteano ire al fondo per lo scuro; per ch’io: “Maestro, fa che tu arrivi72
da l’altro cinghio e dismontiam lo muro; ché, com’i’ odo quinci e non intendo, così giù veggio e neente affiguro”.75
“Altra risposta”, disse, “non ti rendo se non lo far; ché la dimanda onesta si de’ seguir con l’opera tacendo”.78
Noi discendemmo il ponte da la testa dove s’aggiugne con l’ottava ripa, e poi mi fu la bolgia manifesta:81
e vidivi entro terribile stipa di serpenti, e di sì diversa mena che la memoria il sangue ancor mi scipa.84
Più non si vanti Libia con sua rena; ché se chelidri, iaculi e faree produce, e cencri con anfisibena,87
né tante pestilenzie né sì ree mostrò già mai con tutta l’Etïopia né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.90
Tra questa cruda e tristissima copia corrëan genti nude e spaventate, sanza sperar pertugio o elitropia:93
con serpi le man dietro avean legate; quelle ficcavan per le ren la coda e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.96
Ed ecco a un ch’era da nostra proda, s’avventò un serpente che ’l trafisse là dove ’l collo a le spalle s’annoda.99
Né O sì tosto mai né I si scrisse, com’el s’accese e arse, e cener tutto convenne che cascando divenisse;102
e poi che fu a terra sì distrutto, la polver si raccolse per sé stessa e ’n quel medesmo ritornò di butto.105
Così per li gran savi si confessa che la fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa;108
erba né biado in sua vita non pasce, ma sol d’incenso lagrime e d’amomo, e nardo e mirra son l’ultime fasce.111
E qual è quel che cade, e non sa como, per forza di demon ch’a terra il tira, o d’altra oppilazion che lega l’omo,114
quando si leva, che ’ntorno si mira tutto smarrito de la grande angoscia ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:117
tal era ’l peccator levato poscia. Oh potenza di Dio, quant’è severa, che cotai colpi per vendetta croscia!120
Lo duca il domandò poi chi ello era; per ch’ei rispuose: “Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera.123
Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana”.126
E ïo al duca: “Dilli che non mucci, e domanda che colpa qua giù ’l pinse; ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci”.129
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse, ma drizzò verso me l’animo e ’l volto, e di trista vergogna si dipinse;132
poi disse: “Più mi duol che tu m’ hai colto ne la miseria dove tu mi vedi, che quando fui de l’altra vita tolto.135
Io non posso negar quel che tu chiedi; in giù son messo tanto perch’io fui ladro a la sagrestia d’i belli arredi,138
e falsamente già fu apposto altrui. Ma perché di tal vista tu non godi, se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,141
apri li orecchi al mio annunzio, e odi. Pistoia in pria d’i Neri si dimagra; poi Fiorenza rinova gente e modi.144
Tragge Marte vapor di Val di Magra ch’è di torbidi nuvoli involuto; e con tempesta impetüosa e agra147
sovra Campo Picen fia combattuto; ond’ei repente spezzerà la nebbia, sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.150
E detto l’ ho perché doler ti debbia!”.
Canto 25
Nel XXV canto Dante e Virgilio sono sempre nell’ottavo cerchio.Qui incontrano diversi ladri e il centauro Caco,che è finito tra i ladri per aver rubato la mandria a Ercole. I ladri, collocati tra serpenti velenosi,subiscono orrende metamorfosi.
Al fine de le sue parole il ladro le mani alzò con amendue le fiche, gridando: “Togli, Dio, ch’a te le squadro!”.3
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche, perch’una li s’avvolse allora al collo, come dicesse ’Non vo’ che più diche’;6
e un’altra a le braccia, e rilegollo, ribadendo sé stessa sì dinanzi, che non potea con esse dare un crollo.9
Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi d’incenerarti sì che più non duri, poi che ‘n mal fare il seme tuo avanzi?12
Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri non vidi spirto in Dio tanto superbo, non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.15
El si fuggì che non parlò più verbo; e io vidi un centauro pien di rabbia venir chiamando: “Ov’è, ov’è l’acerbo?”.18
Maremma non cred’io che tante n’abbia, quante bisce elli avea su per la groppa infin ove comincia nostra labbia.21
Sovra le spalle, dietro da la coppa, con l’ali aperte li giacea un draco; e quello affuoca qualunque s’intoppa.24
Lo mio maestro disse: “Questi è Caco, che, sotto ’l sasso di monte Aventino, di sangue fece spesse volte laco.27
Non va co’ suoi fratei per un cammino, per lo furto che frodolente fece del grande armento ch’elli ebbe a vicino;30
onde cessar le sue opere biece sotto la mazza d’Ercule, che forse gliene diè cento, e non sentì le diece”.33
Mentre che sì parlava, ed el trascorse, e tre spiriti venner sotto noi, de’ quai né io né ’l duca mio s’accorse,36
se non quando gridar: “Chi siete voi?”; per che nostra novella si ristette, e intendemmo pur ad essi poi.39
Io non li conoscea; ma ei seguette, come suol seguitar per alcun caso, che l’un nomar un altro convenette,42
dicendo: “Cianfa dove fia rimaso?”; per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento, mi puosi ’l dito su dal mento al naso.45
Se tu se’ or, lettore, a creder lento ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia, ché io che ’l vidi, a pena il mi consento.48
Com’io tenea levate in lor le ciglia, e un serpente con sei piè si lancia dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia.51
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia e con li anterïor le braccia prese; poi li addentò e l’una e l’altra guancia;54
li diretani a le cosce distese, e miseli la coda tra ’mbedue e dietro per le ren sù la ritese.57
Ellera abbarbicata mai non fue ad alber sì, come l’orribil fiera per l’altrui membra avviticchiò le sue.60
Poi s’appiccar, come di calda cera fossero stati, e mischiar lor colore, né l’un né l’altro già parea quel ch’era:63
come procede innanzi da l’ardore, per lo papiro suso, un color bruno che non è nero ancora e ’l bianco more.66
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno gridava: “Omè, Agnel, come ti muti! Vedi che già non se’ né due né uno”.69
Già eran li due capi un divenuti, quando n’apparver due figure miste in una faccia, ov’eran due perduti.72
Fersi le braccia due di quattro liste; le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso divenner membra che non fuor mai viste.75
Ogne primaio aspetto ivi era casso: due e nessun l’imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo.78
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par se la via attraversa,81
sì pareva, venendo verso l’epe de li altri due, un serpentello acceso, livido e nero come gran di pepe;84
e quella parte onde prima è preso nostro alimento, a l’un di lor trafisse; poi cadde giuso innanzi lui disteso.87
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse; anzi, co’ piè fermati, sbadigliava pur come sonno o febbre l’assalisse.90
Elli ’l serpente e quei lui riguardava; l’un per la piaga e l’altro per la bocca fummavan forte, e ’l fummo si scontrava.93
Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca del misero Sabello e di Nasidio, e attenda a udir quel ch’or si scocca.96
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, ché se quello in serpente e quella in fonte converte poetando, io non lo ’nvidio;99
ché due nature mai a fronte a fronte non trasmutò sì ch’amendue le forme a cambiar lor matera fosser pronte.102
Insieme si rispuosero a tai norme, che ’l serpente la coda in forca fesse, e ’l feruto ristrinse insieme l’orme.105
Le gambe con le cosce seco stesse s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura non facea segno alcun che si paresse.108
Togliea la coda fessa la figura che si perdeva là, e la sua pelle si facea molle, e quella di là dura.111
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle, e i due piè de la fiera, ch’eran corti, tanto allungar quanto accorciavan quelle.114
Poscia li piè di rietro, insieme attorti, diventaron lo membro che l’uom cela, e ’l misero del suo n’avea due porti.117
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela di color novo, e genera ’l pel suso per l’una parte e da l’altra il dipela,120
l’un si levò e l’altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso.123
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie, e di troppa matera ch’in là venne uscir li orecchi de le gote scempie;126
ciò che non corse in dietro e si ritenne di quel soverchio, fé naso a la faccia e le labbra ingrossò quanto convenne.129
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia, e li orecchi ritira per la testa come face le corna la lumaccia;132
e la lingua, ch’avëa unita e presta prima a parlar, si fende, e la forcuta ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta.135
L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fugge per la valle, e l’altro dietro a lui parlando sputa.138
Poscia li volse le novelle spalle, e disse a l’altro: “I’ vo’ che Buoso corra, com’ ho fatt’io, carpon per questo calle”.141
Così vid’io la settima zavorra mutare e trasmutare; e qui mi scusi la novità se fior la penna abborra.144
E avvegna che li occhi miei confusi fossero alquanto e l’animo smagato, non poter quei fuggirsi tanto chiusi,147
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato; ed era quel che sol, di tre compagni che venner prima, non era mutato;150
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.
Canto 26
Nel canto XXVI, Dante incontra i consiglieri fraudolenti.
Qui incontra le due anime di Diogene e Ulisse.
L’eroe dell’Odissea racconta cosa è accaduto dopo il suo rientro a Itaca.
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ‘nferno tuo nome si spande!3
Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.6
Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.9
E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’ più m’attempo.12
Noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avea fatto iborni a scender pria, rimontò ’l duca mio e trasse mee;15
e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.18
Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,21
perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.24
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,27
come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara:30
di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.33
E qual colui che si vengiò con li orsi vide ’l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,36
che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire:39
tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.42
Io stava sovra ’l ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’esser urto.45
E ’l duca, che mi vide tanto atteso, disse: “Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso”.48
“Maestro mio”, rispuos’io, “per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti:51
chi è ’n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?”.54
Rispuose a me: “Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l’ira;57
e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme.60
Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta”.63
“S’ei posson dentro da quelle faville parlar”, diss’io, “maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille,66
che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!”.69
Ed elli a me: “La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna.72
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto”.75
Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:78
“O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco81
quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi”.84
Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica;87
indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: “Quando90
mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse,93
né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta,96
vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore;99
ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.102
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna.105
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi108
acciò che l’uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta.111
“O frati,” dissi, “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia114
d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente.117
Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”.120
Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;123
e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.126
Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo.129
Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,132
quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna.135
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto.138
Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque,141
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
Canto 27
Nel canto XXVII, Dante e Virgilio incontrano dei cattivi consiglieri, degli imbroglioni come il conte Guido da Montefeltro.
Già era dritta in sù la fiamma e queta per non dir più, e già da noi sen gia con la licenza del dolce poeta,3
quand’un’altra, che dietro a lei venìa, ne fece volger li occhi a la sua cima per un confuso suon che fuor n’uscia.6
Come ’l bue cicilian che mugghiò prima col pianto di colui, e ciò fu dritto, che l’avea temperato con sua lima,9
mugghiava con la voce de l’afflitto, sì che, con tutto che fosse di rame, pur el pareva dal dolor trafitto;12
così, per non aver via né forame dal principio nel foco, in suo linguaggio si convertïan le parole grame.15
Ma poscia ch’ebber colto lor vïaggio su per la punta, dandole quel guizzo che dato avea la lingua in lor passaggio,18
udimmo dire: “O tu a cu’ io drizzo la voce e che parlavi mo lombardo, dicendo “Istra ten va, più non t’adizzo”,21
perch’io sia giunto forse alquanto tardo, non t’incresca restare a parlar meco; vedi che non incresce a me, e ardo!24
Se tu pur mo in questo mondo cieco caduto se’ di quella dolce terra latina ond’io mia colpa tutta reco,27
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; ch’io fui d’i monti là intra Orbino e ’l giogo di che Tever si diserra”.30
Io era in giuso ancora attento e chino, quando il mio duca mi tentò di costa, dicendo: “Parla tu; questi è latino”.33
E io, ch’avea già pronta la risposta, sanza indugio a parlare incominciai: “O anima che se’ là giù nascosta,36
Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni; ma ’n palese nessuna or vi lasciai.39
Ravenna sta come stata è molt’anni: l’aguglia da Polenta la si cova, sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.42
La terra che fé già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio, sotto le branche verdi si ritrova.45
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, che fecer di Montagna il mal governo, là dove soglion fan d’i denti succhio.48
Le città di Lamone e di Santerno conduce il lïoncel dal nido bianco, che muta parte da la state al verno.51
E quella cu’ il Savio bagna il fianco, così com’ella sie’ tra ‘l piano e ‘l monte, tra tirannia si vive e stato franco.54
Ora chi se’, ti priego che ne conte; non esser duro più ch’altri sia stato, se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte”.57
Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato al modo suo, l’aguta punta mosse di qua, di là, e poi diè cotal fiato:60
“S’i’ credesse che mia risposta fosse a persona che mai tornasse al mondo, questa fiamma staria sanza più scosse;63
ma però che già mai di questo fondo non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero, sanza tema d’infamia ti rispondo.66
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venìa intero,69
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!, che mi rimise ne le prime colpe; e come e quare, voglio che m’intenda.72
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè, l’opere mie non furon leonine, ma di volpe.75
Li accorgimenti e le coperte vie io seppi tutte, e sì menai lor arte, ch’al fine de la terra il suono uscie.78
Quando mi vidi giunto in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte,81
ciò che pria mi piacëa, allor m’increbbe, e pentuto e confesso mi rendei; ahi miser lasso! e giovato sarebbe.84
Lo principe d’i novi Farisei, avendo guerra presso a Laterano, e non con Saracin né con Giudei,87
ché ciascun suo nimico era cristiano, e nessun era stato a vincer Acri né mercatante in terra di Soldano,90
né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri.93
Ma come Costantin chiese Silvestro d’entro Siratti a guerir de la lebbre, così mi chiese questi per maestro96
a guerir de la sua superba febbre; domandommi consiglio, e io tacetti perché le sue parole parver ebbre.99
E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti; finor t’assolvo, e tu m’insegna fare sì come Penestrino in terra getti.102
Lo ciel poss’io serrare e diserrare, come tu sai; però son due le chiavi che ’l mio antecessor non ebbe care”.105
Allor mi pinser li argomenti gravi là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio, e dissi: “Padre, da che tu mi lavi108
di quel peccato ov’io mo cader deggio, lunga promessa con l’attender corto ti farà trïunfar ne l’alto seggio”.111
Francesco venne poi, com’io fu’ morto, per me; ma un d’i neri cherubini li disse: “Non portar; non mi far torto.114
Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini perché diede ’l consiglio frodolente, dal quale in qua stato li sono a’ crini;117
ch’assolver non si può chi non si pente, né pentere e volere insieme puossi per la contradizion che nol consente”.120
Oh me dolente! come mi riscossi quando mi prese dicendomi: “Forse tu non pensavi ch’io löico fossi!”.123
A Minòs mi portò; e quelli attorse otto volte la coda al dosso duro; e poi che per gran rabbia la si morse,126
disse: “Questi è d’i rei del foco furo”; per ch’io là dove vedi son perduto, e sì vestito, andando, mi rancuro”.129
Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto, la fiamma dolorando si partio, torcendo e dibattendo ’l corno aguto.132
Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio, su per lo scoglio infino in su l’altr’arco che cuopre ’l fosso in che si paga il fio135
Questo è uno dei canti più sanguinosi di tutto l’inferno. Dante e Virgilio sono nella nona bolgia e incontrano la nutrita schiera di coloro che provocarono scismi e discordie. Tra questi troviamo anche Maometto perché al tempo di Dante si credeva che Maometto fosse stato un vescovo che aveva provocato uno scisma per non esser stato eletto al soglio papale.
Molti sono i dannati che vengono lacerati e mutilati dai demoni.
Chi poria mai pur con parole sciolte dicer del sangue e de le piaghe a pieno ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?3
Ogne lingua per certo verria meno per lo nostro sermone e per la mente c’ hanno a tanto comprender poco seno.6
S’el s’aunasse ancor tutta la gente che già, in su la fortunata terra di Puglia, fu del suo sangue dolente9
per li Troiani e per la lunga guerra che de l’anella fé sì alte spoglie, come Livïo scrive, che non erra,12
con quella che sentio di colpi doglie per contastare a Ruberto Guiscardo; e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie15
a Ceperan, là dove fu bugiardo ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo, dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;18
e qual forato suo membro e qual mozzo mostrasse, d’aequar sarebbe nulla il modo de la nona bolgia sozzo.21
Già veggia, per mezzul perdere o lulla, com’io vidi un, così non si pertugia, rotto dal mento infin dove si trulla.24
Tra le gambe pendevan le minugia; la corata pareva e ’l tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia.27
Mentre che tutto in lui veder m’attacco, guardommi e con le man s’aperse il petto, dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!30
vedi come storpiato è Mäometto! Dinanzi a me sen va piangendo Alì, fesso nel volto dal mento al ciuffetto.33
E tutti li altri che tu vedi qui, seminator di scandalo e di scisma fuor vivi, e però son fessi così.36
Un diavolo è qua dietro che n’accisma sì crudelmente, al taglio de la spada rimettendo ciascun di questa risma,39
quand’avem volta la dolente strada; però che le ferite son richiuse prima ch’altri dinanzi li rivada.42
Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse, forse per indugiar d’ire a la pena ch’è giudicata in su le tue accuse?”.45
“Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena”, rispuose ’l mio maestro, “a tormentarlo; ma per dar lui esperïenza piena,48
a me, che morto son, convien menarlo per lo ’nferno qua giù di giro in giro; e quest’è ver così com’io ti parlo”.51
Più fuor di cento che, quando l’udiro, s’arrestaron nel fosso a riguardarmi per maraviglia, oblïando il martiro.54
“Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi, tu che forse vedra’ il sole in breve, s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,57
sì di vivanda, che stretta di neve non rechi la vittoria al Noarese, ch’altrimenti acquistar non saria leve”.60
Poi che l’un piè per girsene sospese, Mäometto mi disse esta parola; indi a partirsi in terra lo distese.63
Un altro, che forata avea la gola e tronco ’l naso infin sotto le ciglia, e non avea mai ch’una orecchia sola,66
ristato a riguardar per maraviglia con li altri, innanzi a li altri aprì la canna, ch’era di fuor d’ogne parte vermiglia,69
e disse: “O tu cui colpa non condanna e cu’ io vidi in su terra latina, se troppa simiglianza non m’inganna,72
rimembriti di Pier da Medicina, se mai torni a veder lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina.75
E fa sapere a’ due miglior da Fano, a messer Guido e anco ad Angiolello, che, se l’antiveder qui non è vano,78
gittati saran fuor di lor vasello e mazzerati presso a la Cattolica per tradimento d’un tiranno fello.81
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica non vide mai sì gran fallo Nettuno, non da pirate, non da gente argolica.84
Quel traditor che vede pur con l’uno, e tien la terra che tale qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno,87
farà venirli a parlamento seco; poi farà sì, ch’al vento di Focara non sarà lor mestier voto né preco”.90
E io a lui: “Dimostrami e dichiara, se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella, chi è colui da la veduta amara”.93
Allor puose la mano a la mascella d’un suo compagno e la bocca li aperse, gridando: “Questi è desso, e non favella.96
Questi, scacciato, il dubitar sommerse in Cesare, affermando che ’l fornito sempre con danno l’attender sofferse”.99
Oh quanto mi pareva sbigottito con la lingua tagliata ne la strozza Curïo, ch’a dir fu così ardito!102
E un ch’avea l’una e l’altra man mozza, levando i moncherin per l’aura fosca, sì che ’l sangue facea la faccia sozza,105
gridò: “Ricordera’ ti anche del Mosca, che disse, lasso!, ’Capo ha cosa fatta’, che fu mal seme per la gente tosca”.108
E io li aggiunsi: “E morte di tua schiatta”; per ch’elli, accumulando duol con duolo, sen gio come persona trista e matta.111
Ma io rimasi a riguardar lo stuolo, e vidi cosa ch’io avrei paura, sanza più prova, di contarla solo;114
se non che coscïenza m’assicura, la buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’asbergo del sentirsi pura.117
Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia, un busto sanza capo andar sì come andavan li altri de la trista greggia;120
e ’l capo tronco tenea per le chiome, pesol con mano a guisa di lanterna: e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”.123
Di sé facea a sé stesso lucerna, ed eran due in uno e uno in due; com’esser può, quei sa che sì governa.126
Quando diritto al piè del ponte fue, levò ’l braccio alto con tutta la testa per appressarne le parole sue,129
che fuoro: “Or vedi la pena molesta, tu che, spirando, vai veggendo i morti: vedi s’alcuna è grande come questa.132
E perché tu di me novella porti, sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli che diedi al re giovane i ma’ conforti.135
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli; Achitofèl non fé più d’Absalone e di Davìd coi malvagi punzelli.138
Perch’io parti’ così giunte persone, partito porto il mio cerebro, lasso!, dal suo principio ch’è in questo troncone.141
Così s’osserva in me lo contrapasso”.
Canto 29
Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l’autore i Sanesi.
La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe.3
Ma Virgilio mi disse: “Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra l’ombre triste smozzicate?6
Tu non hai fatto sì a l’altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge.9
E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n’è concesso, e altro è da veder che tu non vedi”.12
“Se tu avessi”, rispuos’io appresso, “atteso a la cagion per ch’io guardava, forse m’avresti ancor lo star dimesso”.15
Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: “Dentro a quella cava18
dov’io tenea or li occhi sì a posta, credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa”.21
Allor disse ’l maestro: “Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;24
ch’io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi’ ’l nominar Geri del Bello.27
Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito”.30
“O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor”, diss’io, “per alcun che de l’onta sia consorte,33
fece lui disdegnoso; ond’el sen gio sanza parlarmi, sì com’ïo estimo: e in ciò m’ ha el fatto a sé più pio”.36
Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l’altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo.39
Quando noi fummo sor l’ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra,42
lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond’io li orecchi con le man copersi.45
Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali48
fossero in una fossa tutti ’nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre.51
Noi discendemmo in su l’ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva54
giù ver’ lo fondo, là ’ve la ministra de l’alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra.57
Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l’aere sì pien di malizia,60
che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo,63
si ristorar di seme di formiche; ch’era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.66
Qual sovra ’l ventre e qual sovra le spalle l’un de l’altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle.69
Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone.72
Io vidi due sedere a sé poggiati, com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati;75
e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia,78
come ciascun menava spesso il morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso;81
e sì traevan giù l’unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d’altro pesce che più larghe l’abbia.84
“O tu che con le dita ti dismaglie”, cominciò ’l duca mio a l’un di loro, “e che fai d’esse talvolta tanaglie,87
dinne s’alcun Latino è tra costoro che son quinc’entro, se l’unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro”.90
“Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue”, rispuose l’un piangendo; “ma tu chi se’ che di noi dimandasti?”.93
E ’l duca disse: “I’ son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo ’nferno a lui intendo”.96
Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l’udiron di rimbalzo.99
Lo buon maestro a me tutto s’accolse, dicendo: “Dì a lor ciò che tu vuoli”; e io incominciai, poscia ch’ei volse:102
“Se la vostra memoria non s’imboli nel primo mondo da l’umane menti, ma s’ella viva sotto molti soli,105
ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi”.108
“Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”, rispuose l’un, “mi fé mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.111
Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco,114
volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo perch’io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo.117
Ma ne l’ultima bolgia de le diece me per l’alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece”.120
E io dissi al poeta: “Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d’assai!”.123
Onde l’altro lebbroso, che m’intese, rispuose al detto mio: “Tra’ mene Stricca che seppe far le temperate spese,126
e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l’orto dove tal seme s’appicca;129
e tra’ ne la brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda, e l’Abbagliato suo senno proferse.132
Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda:135
sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l’alchìmia; e te dee ricordar, se ben t’adocchio,138
com’io fui di natura buona scimia”.
Canto 30
anto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente.
Nel tempo che Iunone era crucciata per Semelè contra ’l sangue tebano, come mostrò una e altra fïata,3
Atamante divenne tanto insano, che veggendo la moglie con due figli andar carcata da ciascuna mano,6
gridò: “Tendiam le reti, sì ch’io pigli la leonessa e ’ leoncini al varco”; e poi distese i dispietati artigli,9
prendendo l’un ch’avea nome Learco, e rotollo e percosselo ad un sasso; e quella s’annegò con l’altro carco.12
E quando la fortuna volse in basso l’altezza de’ Troian che tutto ardiva, sì che ’nsieme col regno il re fu casso,15
Ecuba trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta, e del suo Polidoro in su la riva18
del mar si fu la dolorosa accorta, forsennata latrò sì come cane; tanto il dolor le fé la mente torta.21
Ma né di Tebe furie né troiane si vider mäi in alcun tanto crude, non punger bestie, nonché membra umane,24
quant’io vidi in due ombre smorte e nude, che mordendo correvan di quel modo che ’l porco quando del porcil si schiude.27
L’una giunse a Capocchio, e in sul nodo del collo l’assannò, sì che, tirando, grattar li fece il ventre al fondo sodo.30
E l’Aretin che rimase, tremando mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi, e va rabbioso altrui così conciando”.33
“Oh”, diss’io lui, “se l’altro non ti ficchi li denti a dosso, non ti sia fatica a dir chi è, pria che di qui si spicchi”.36
Ed elli a me: “Quell’è l’anima antica di Mirra scellerata, che divenne al padre, fuor del dritto amore, amica.39
Questa a peccar con esso così venne, falsificando sé in altrui forma, come l’altro che là sen va, sostenne,42
per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma”.45
E poi che i due rabbiosi fuor passati sovra cu’ io avea l’occhio tenuto, rivolsilo a guardar li altri mal nati.48
Io vidi un, fatto a guisa di lëuto, pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.51
La grave idropesì, che sì dispaia le membra con l’omor che mal converte, che ’l viso non risponde a la ventraia,54
faceva lui tener le labbra aperte come l’etico fa, che per la sete l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte.57
“O voi che sanz’alcuna pena siete, e non so io perché, nel mondo gramo”, diss’elli a noi, “guardate e attendete60
a la miseria del maestro Adamo; io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli, e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo.63
Li ruscelletti che d’i verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli,66
sempre mi stanno innanzi, e non indarno, ché l’imagine lor vie più m’asciuga che ’l male ond’io nel volto mi discarno.69
La rigida giustizia che mi fruga tragge cagion del loco ov’io peccai a metter più li miei sospiri in fuga.72
Ivi è Romena, là dov’io falsai la lega suggellata del Batista; per ch’io il corpo sù arso lasciai.75
Ma s’io vedessi qui l’anima trista di Guido o d’Alessandro o di lor frate, per Fonte Branda non darei la vista.78
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate ombre che vanno intorno dicon vero; ma che mi val, c’ ho le membra legate?81
S’io fossi pur di tanto ancor leggero ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia, io sarei messo già per lo sentiero,84
cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch’ella volge undici miglia, e men d’un mezzo di traverso non ci ha.87
Io son per lor tra sì fatta famiglia; e’ m’indussero a batter li fiorini ch’avevan tre carati di mondiglia”.90
E io a lui: “Chi son li due tapini che fumman come man bagnate ’l verno, giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.93
“Qui li trovai – e poi volta non dierno -“, rispuose, “quando piovvi in questo greppo, e non credo che dieno in sempiterno.96
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo; l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia: per febbre aguta gittan tanto leppo”.99
E l’un di lor, che si recò a noia forse d’esser nomato sì oscuro, col pugno li percosse l’epa croia.102
Quella sonò come fosse un tamburo; e mastro Adamo li percosse il volto col braccio suo, che non parve men duro,105
dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto lo muover per le membra che son gravi, ho io il braccio a tal mestiere sciolto”.108
Ond’ei rispuose: “Quando tu andavi al fuoco, non l’avei tu così presto; ma sì e più l’avei quando coniavi”.111
E l’idropico: “Tu di’ ver di questo: ma tu non fosti sì ver testimonio là ’ve del ver fosti a Troia richesto”.114
“S’io dissi falso, e tu falsasti il conio”, disse Sinon; “e son qui per un fallo, e tu per più ch’alcun altro demonio!”.117
“Ricorditi, spergiuro, del cavallo”, rispuose quel ch’avëa infiata l’epa; “e sieti reo che tutto il mondo sallo!”.120
“E te sia rea la sete onde ti crepa”, disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”.123
Allora il monetier: “Così si squarcia la bocca tua per tuo mal come suole; ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia,126
tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole, e per leccar lo specchio di Narcisso, non vorresti a ’nvitar molte parole”.129
Ad ascoltarli er’io del tutto fisso, quando ’l maestro mi disse: “Or pur mira, che per poco che teco non mi risso!”.132
Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira, volsimi verso lui con tal vergogna, ch’ancor per la memoria mi si gira.135
Qual è colui che suo dannaggio sogna, che sognando desidera sognare, sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,138
tal mi fec’io, non possendo parlare, che disïava scusarmi, e scusava me tuttavia, e nol mi credea fare.141
“Maggior difetto men vergogna lava”, disse ’l maestro, “che ’l tuo non è stato; però d’ogne trestizia ti disgrava.144
E fa ragion ch’io ti sia sempre allato, se più avvien che fortuna t’accoglia dove sien genti in simigliante piato:147
ché voler ciò udire è bassa voglia”.
Canto 31
Canto XXXI, ove tratta de’ giganti che guardano il pozzo de l’inferno, ed è il nono cerchio.
Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l’una e l’altra guancia, e poi la medicina mi riporse;3
così od’io che solea far la lancia d’Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia.6
Noi demmo il dosso al misero vallone su per la ripa che ’l cinge dintorno, attraversando sanza alcun sermone.9
Quiv’era men che notte e men che giorno, sì che ’l viso m’andava innanzi poco; ma io senti’ sonare un alto corno,12
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco, che, contra sé la sua via seguitando, dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.15
Dopo la dolorosa rotta, quando Carlo Magno perdé la santa gesta, non sonò sì terribilmente Orlando.18
Poco portäi in là volta la testa, che me parve veder molte alte torri; ond’io: “Maestro, dì, che terra è questa?”.21
Ed elli a me: “Però che tu trascorri per le tenebre troppo da la lungi, avvien che poi nel maginare abborri.24
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi, quanto ’l senso s’inganna di lontano; però alquanto più te stesso pungi”.27
Poi caramente mi prese per mano e disse: “Pria che noi siam più avanti, acciò che ’l fatto men ti paia strano,30
sappi che non son torri, ma giganti, e son nel pozzo intorno da la ripa da l’umbilico in giuso tutti quanti”.33
Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,36
così forando l’aura grossa e scura, più e più appressando ver’ la sponda, fuggiemi errore e cresciemi paura;39
però che, come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che ’l pozzo circonda42
torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona.45
E io scorgeva già d’alcun la faccia, le spalle e ’l petto e del ventre gran parte, e per le coste giù ambo le braccia.48
Natura certo, quando lasciò l’arte di sì fatti animali, assai fé bene per tòrre tali essecutori a Marte.51
E s’ella d’elefanti e di balene non si pente, chi guarda sottilmente, più giusta e più discreta la ne tene;54
ché dove l’argomento de la mente s’aggiugne al mal volere e a la possa, nessun riparo vi può far la gente.57
La faccia sua mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a Roma, e a sua proporzione eran l’altre ossa;60
sì che la ripa, ch’era perizoma dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto di sovra, che di giugnere a la chioma63
tre Frison s’averien dato mal vanto; però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi dal loco in giù dov’omo affibbia ’l manto.66
“Raphèl maì amècche zabì almi”, cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenia più dolci salmi.69
E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca, tienti col corno, e con quel ti disfoga quand’ira o altra passïon ti tocca!72
Cércati al collo, e troverai la soga che ’l tien legato, o anima confusa, e vedi lui che ’l gran petto ti doga”.75
Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa; questi è Nembrotto per lo cui mal coto pur un linguaggio nel mondo non s’usa.78
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto; ché così è a lui ciascun linguaggio come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto”.81
Facemmo adunque più lungo vïaggio, vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro trovammo l’altro assai più fero e maggio.84
A cigner lui qual che fosse ’l maestro, non so io dir, ma el tenea soccinto dinanzi l’altro e dietro il braccio destro87
d’una catena che ’l tenea avvinto dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto si ravvolgëa infino al giro quinto.90
“Questo superbo volle esser esperto di sua potenza contra ’l sommo Giove”, disse ’l mio duca, “ond’elli ha cotal merto.93
Fïalte ha nome, e fece le gran prove quando i giganti fer paura a’ dèi; le braccia ch’el menò, già mai non move”.96
E io a lui: “S’esser puote, io vorrei che de lo smisurato Brïareo esperïenza avesser li occhi mei”.99
Ond’ei rispuose: “Tu vedrai Anteo presso di qui che parla ed è disciolto, che ne porrà nel fondo d’ogne reo.102
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto ed è legato e fatto come questo, salvo che più feroce par nel volto”.105
Non fu tremoto già tanto rubesto, che scotesse una torre così forte, come Fïalte a scuotersi fu presto.108
Allor temett’io più che mai la morte, e non v’era mestier più che la dotta, s’io non avessi viste le ritorte.111
Noi procedemmo più avante allotta, e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, sanza la testa, uscia fuor de la grotta.114
“O tu che ne la fortunata valle che fece Scipïon di gloria reda, quand’Anibàl co’ suoi diede le spalle,117
recasti già mille leon per preda, e che, se fossi stato a l’alta guerra de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda120
ch’avrebber vinto i figli de la terra: mettine giù, e non ten vegna schifo, dove Cocito la freddura serra.123
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo: questi può dar di quel che qui si brama; però ti china e non torcer lo grifo.126
Ancor ti può nel mondo render fama, ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama”.129
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta le man distese, e prese ’l duca mio, ond’Ercule sentì già grande stretta.132
Virgilio, quando prender si sentio, disse a me: “Fatti qua, sì ch’io ti prenda”; poi fece sì ch’un fascio era elli e io.135
Qual pare a riguardar la Carisenda sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa sì, ched ella incontro penda:138
tal parve Antëo a me che stava a bada di vederlo chinare, e fu tal ora ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.141
Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; né, sì chinato, lì fece dimora,144
e come albero in nave si levò.
Canto 32
Canto XXXII, nel quale tratta de’ traditori di loro schiatta e de’ traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l’inferno.
S’ïo avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,3
io premerei di mio concetto il suco più pienamente; ma perch’io non l’abbo, non sanza tema a dicer mi conduco;6
ché non è impresa da pigliare a gabbo discriver fondo a tutto l’universo, né da lingua che chiami mamma o babbo.9
Ma quelle donne aiutino il mio verso ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe, sì che dal fatto il dir non sia diverso.12
Oh sovra tutte mal creata plebe che stai nel loco onde parlare è duro, mei foste state qui pecore o zebe!15
Come noi fummo giù nel pozzo scuro sotto i piè del gigante assai più bassi, e io mirava ancora a l’alto muro,18
dicere udi’ mi: “Guarda come passi: va sì, che tu non calchi con le piante le teste de’ fratei miseri lassi”.21
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante e sotto i piedi un lago che per gelo avea di vetro e non d’acqua sembiante.24
Non fece al corso suo sì grosso velo di verno la Danoia in Osterlicchi, né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,27
com’era quivi; che se Tambernicchi vi fosse sù caduto, o Pietrapana, non avria pur da l’orlo fatto cricchi.30
E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l’acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana,33
livide, insin là dove appar vergogna eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia, mettendo i denti in nota di cicogna.36
Ognuna in giù tenea volta la faccia; da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo tra lor testimonianza si procaccia.39
Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto, volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti, che ’l pel del capo avieno insieme misto.42
“Ditemi, voi che sì strignete i petti”, diss’io, “chi siete?”. E quei piegaro i colli; e poi ch’ebber li visi a me eretti,45
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse le lagrime tra essi e riserrolli.48
Con legno legno spranga mai non cinse forte così; ond’ei come due becchi cozzaro insieme, tanta ira li vinse.51
E un ch’avea perduti ambo li orecchi per la freddura, pur col viso in giùe, disse: “Perché cotanto in noi ti specchi?54
Se vuoi saper chi son cotesti due, la valle onde Bisenzo si dichina del padre loro Alberto e di lor fue.57
D’un corpo usciro; e tutta la Caina potrai cercare, e non troverai ombra degna più d’esser fitta in gelatina:60
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra con esso un colpo per la man d’Artù; non Focaccia; non questi che m’ingombra63
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più, e fu nomato Sassol Mascheroni; se tosco se’, ben sai omai chi fu.66
E perché non mi metti in più sermoni, sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi; e aspetto Carlin che mi scagioni”.69
Poscia vid’io mille visi cagnazzi fatti per freddo; onde mi vien riprezzo, e verrà sempre, de’ gelati guazzi.72
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo al quale ogne gravezza si rauna, e io tremava ne l’etterno rezzo;75
se voler fu o destino o fortuna, non so; ma, passeggiando tra le teste, forte percossi ’l piè nel viso ad una.78
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste? se tu non vieni a crescer la vendetta di Montaperti, perché mi moleste?”.81
E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta, sì ch’io esca d’un dubbio per costui; poi mi farai, quantunque vorrai, fretta”.84
Lo duca stette, e io dissi a colui che bestemmiava duramente ancora: “Qual se’ tu che così rampogni altrui?”.87
“Or tu chi se’ che vai per l’Antenora, percotendo”, rispuose, “altrui le gote, sì che, se fossi vivo, troppo fora?”.90
“Vivo son io, e caro esser ti puote”, fu mia risposta, “se dimandi fama, ch’io metta il nome tuo tra l’altre note”.93
Ed elli a me: “Del contrario ho io brama. Lèvati quinci e non mi dar più lagna, ché mal sai lusingar per questa lama!”.96
Allor lo presi per la cuticagna e dissi: “El converrà che tu ti nomi, o che capel qui sù non ti rimagna”.99
Ond’elli a me: “Perché tu mi dischiomi, né ti dirò ch’io sia, né mosterrolti se mille fiate in sul capo mi tomi”.102
Io avea già i capelli in mano avvolti, e tratti glien’avea più d’una ciocca, latrando lui con li occhi in giù raccolti,105
quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?”.108
“Omai”, diss’io, “non vo’ che più favelle, malvagio traditor; ch’a la tua onta io porterò di te vere novelle”.111
“Va via”, rispuose, “e ciò che tu vuoi conta; ma non tacer, se tu di qua entro eschi, di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.114
El piange qui l’argento de’ Franceschi: “Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera là dove i peccatori stanno freschi”.117
Se fossi domandato “Altri chi v’era?”, tu hai dallato quel di Beccheria di cui segò Fiorenza la gorgiera.120
Gianni de’ Soldanier credo che sia più là con Ganellone e Tebaldello, ch’aprì Faenza quando si dormia”.123
Noi eravam partiti già da ello, ch’io vidi due ghiacciati in una buca, sì che l’un capo a l’altro era cappello;126
e come ’l pan per fame si manduca, così ’l sovran li denti a l’altro pose là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:129
non altrimenti Tidëo si rose le tempie a Menalippo per disdegno, che quei faceva il teschio e l’altre cose.132
“O tu che mostri per sì bestial segno odio sovra colui che tu ti mangi, dimmi ’l perché”, diss’io, “per tal convegno,135
che se tu a ragion di lui ti piangi, sappiendo chi voi siete e la sua pecca, nel mondo suso ancora io te ne cangi,138
se quella con ch’io parlo non si secca”.
Canto 33
Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.
La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto.3
Poi cominciò: “Tu vuo’ ch’io rinovelli disperato dolor che ’l cor mi preme già pur pensando, pria ch’io ne favelli.6
Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme.9
Io non so chi tu se’ né per che modo venuto se’ qua giù; ma fiorentino mi sembri veramente quand’io t’odo.12
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, e questi è l’arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino.15
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, fidandomi di lui, io fossi preso e poscia morto, dir non è mestieri;18
però quel che non puoi avere inteso, cioè come la morte mia fu cruda, udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.21
Breve pertugio dentro da la Muda, la qual per me ha ’l titol de la fame, e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,24
m’avea mostrato per lo suo forame più lune già, quand’io feci ’l mal sonno che del futuro mi squarciò ’l velame.27
Questi pareva a me maestro e donno, cacciando il lupo e ’ lupicini al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno.30
Con cagne magre, studïose e conte Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi s’avea messi dinanzi da la fronte.33
In picciol corso mi parieno stanchi lo padre e ’ figli, e con l’agute scane mi parea lor veder fender li fianchi.36
Quando fui desto innanzi la dimane, pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e dimandar del pane.39
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava; e se non piangi, di che pianger suoli?42
Già eran desti, e l’ora s’appressava che ’l cibo ne solëa essere addotto, e per suo sogno ciascun dubitava;45
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto a l’orribile torre; ond’io guardai nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.48
Io non piangëa, sì dentro impetrai: piangevan elli; e Anselmuccio mio disse: “Tu guardi sì, padre! che hai?”.51
Perciò non lagrimai né rispuos’io tutto quel giorno né la notte appresso, infin che l’altro sol nel mondo uscìo.54
Come un poco di raggio si fu messo nel doloroso carcere, e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso,57
ambo le man per lo dolor mi morsi; ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia di manicar, di sùbito levorsi60
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi: tu ne vestisti queste misere carni, e tu le spoglia”.63
Queta’ mi allor per non farli più tristi; lo dì e l’altro stemmo tutti muti; ahi dura terra, perché non t’apristi?66
Poscia che fummo al quarto dì venuti, Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.69
Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,72
già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti. Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.75
Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti riprese ’l teschio misero co’ denti, che furo a l’osso, come d’un can, forti.78
Ahi Pisa, vituperio de le genti del bel paese là dove ‘l sì suona, poi che i vicini a te punir son lenti,81
muovasi la Capraia e la Gorgona, e faccian siepe ad Arno in su la foce, sì ch’elli annieghi in te ogne persona!84
Che se ’l conte Ugolino aveva voce d’aver tradita te de le castella, non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.87
Innocenti facea l’età novella, novella Tebe, Uguiccione e ’l Brigata e li altri due che ’l canto suso appella.90
Noi passammo oltre, là ’ve la gelata ruvidamente un’altra gente fascia, non volta in giù, ma tutta riversata.93
Lo pianto stesso lì pianger non lascia, e ’l duol che truova in su li occhi rintoppo, si volge in entro a far crescer l’ambascia;96
ché le lagrime prime fanno groppo, e sì come visiere di cristallo, rïempion sotto ’l ciglio tutto il coppo.99
E avvegna che, sì come d’un callo, per la freddura ciascun sentimento cessato avesse del mio viso stallo,102
già mi parea sentire alquanto vento; per ch’io: “Maestro mio, questo chi move? non è qua giù ogne vapore spento?”.105
Ond’elli a me: “Avaccio sarai dove di ciò ti farà l’occhio la risposta, veggendo la cagion che ’l fiato piove”.108
E un de’ tristi de la fredda crosta gridò a noi: “O anime crudeli tanto che data v’è l’ultima posta,111
levatemi dal viso i duri veli, sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna, un poco, pria che ’l pianto si raggeli”.114
Per ch’io a lui: “Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, al fondo de la ghiaccia ir mi convegna”.117
Rispuose adunque: “I’ son frate Alberigo; i’ son quel da le frutta del mal orto, che qui riprendo dattero per figo”.120
“Oh”, diss’io lui, “or se’ tu ancor morto?”. Ed elli a me: “Come ’l mio corpo stea nel mondo sù, nulla scïenza porto.123
Cotal vantaggio ha questa Tolomea, che spesse volte l’anima ci cade innanzi ch’Atropòs mossa le dea.126
E perché tu più volontier mi rade le ’nvetrïate lagrime dal volto, sappie che, tosto che l’anima trade129
come fec’ïo, il corpo suo l’è tolto da un demonio, che poscia il governa mentre che ’l tempo suo tutto sia vòlto.132
Ella ruina in sì fatta cisterna; e forse pare ancor lo corpo suso de l’ombra che di qua dietro mi verna.135
Tu ’l dei saper, se tu vien pur mo giuso: elli è ser Branca Doria, e son più anni poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.138
“Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; ché Branca Doria non morì unquanche, e mangia e bee e dorme e veste panni”.141
“Nel fosso sù”, diss’el, “de’ Malebranche, là dove bolle la tenace pece, non era ancora giunto Michel Zanche,144
che questi lasciò il diavolo in sua vece nel corpo suo, ed un suo prossimano che ’l tradimento insieme con lui fece.147
Ma distendi oggimai in qua la mano; aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi; e cortesia fu lui esser villano.150
Ahi Genovesi, uomini diversi d’ogne costume e pien d’ogne magagna, perché non siete voi del mondo spersi?153
Ché col peggiore spirto di Romagna trovai di voi un tal, che per sua opra in anima in Cocito già si bagna,156
e in corpo par vivo ancor di sopra.
Canto 34
Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de’ dimoni e de’ traditori di loro signori, e narra come uscie de l’inferno.
“Vexilla regis prodeunt inferni verso di noi; però dinanzi mira”, disse ’l maestro mio, “se tu ’l discerni”.3
Come quando una grossa nebbia spira, o quando l’emisperio nostro annotta, par di lungi un molin che ’l vento gira,6
veder mi parve un tal dificio allotta; poi per lo vento mi ristrinsi retro al duca mio, ché non lì era altra grotta.9
Già era, e con paura il metto in metro, là dove l’ombre tutte eran coperte, e trasparien come festuca in vetro.12
Altre sono a giacere; altre stanno erte, quella col capo e quella con le piante; altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.15
Quando noi fummo fatti tanto avante, ch’al mio maestro piacque di mostrarmi la creatura ch’ebbe il bel sembiante,18
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi, “Ecco Dite”, dicendo, “ed ecco il loco ove convien che di fortezza t’armi”.21
Com’io divenni allor gelato e fioco, nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, però ch’ogne parlar sarebbe poco.24
Io non mori’ e non rimasi vivo; pensa oggimai per te, s’ hai fior d’ingegno, qual io divenni, d’uno e d’altro privo.27
Lo ’mperador del doloroso regno da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io mi convegno,30
che i giganti non fan con le sue braccia: vedi oggimai quant’esser dee quel tutto ch’a così fatta parte si confaccia.33
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogne lutto.36
Oh quanto parve a me gran maraviglia quand’io vidi tre facce a la sua testa! L’una dinanzi, e quella era vermiglia;39
l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla, e sé giugnieno al loco de la cresta:42
e la destra parea tra bianca e gialla; la sinistra a vedere era tal, quali vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.45
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali, quanto si convenia a tanto uccello: vele di mar non vid’io mai cotali.48
Non avean penne, ma di vispistrello era lor modo; e quelle svolazzava, sì che tre venti si movean da ello:51
quindi Cocito tutto s’aggelava. Con sei occhi piangëa, e per tre menti gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.54
Da ogne bocca dirompea co’ denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti.57
A quel dinanzi il mordere era nulla verso ’l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla.60
“Quell’anima là sù c’ ha maggior pena”, disse ’l maestro, “è Giuda Scarïotto, che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.63
De li altri due c’ hanno il capo di sotto, quel che pende dal nero ceffo è Bruto: vedi come si storce, e non fa motto!;66
e l’altro è Cassio, che par sì membruto. Ma la notte risurge, e oramai è da partir, ché tutto avem veduto”.69
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai; ed el prese di tempo e loco poste, e quando l’ali fuoro aperte assai,72
appigliò sé a le vellute coste; di vello in vello giù discese poscia tra ’l folto pelo e le gelate croste.75
Quando noi fummo là dove la coscia si volge, a punto in sul grosso de l’anche, lo duca, con fatica e con angoscia,78
volse la testa ov’elli avea le zanche, e aggrappossi al pel com’om che sale, sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.81
“Attienti ben, ché per cotali scale”, disse ’l maestro, ansando com’uom lasso, “conviensi dipartir da tanto male”.84
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso e puose me in su l’orlo a sedere; appresso porse a me l’accorto passo.87
Io levai li occhi e credetti vedere Lucifero com’io l’avea lasciato, e vidili le gambe in sù tenere;90
e s’io divenni allora travagliato, la gente grossa il pensi, che non vede qual è quel punto ch’io avea passato.93
“Lèvati sù”, disse ’l maestro, “in piede: la via è lunga e ’l cammino è malvagio, e già il sole a mezza terza riede”.96
Non era camminata di palagio là ’v’eravam, ma natural burella ch’avea mal suolo e di lume disagio.99
“Prima ch’io de l’abisso mi divella, maestro mio”, diss’io quando fui dritto, “a trarmi d’erro un poco mi favella:102
ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto sì sottosopra? e come, in sì poc’ora, da sera a mane ha fatto il sol tragitto?”.105
Ed elli a me: “Tu imagini ancora d’esser di là dal centro, ov’io mi presi al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.108
Di là fosti cotanto quant’io scesi; quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto al qual si traggon d’ogne parte i pesi.111
E se’ or sotto l’emisperio giunto ch’è contraposto a quel che la gran secca coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto114
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca; tu haï i piedi in su picciola spera che l’altra faccia fa de la Giudecca.117
Qui è da man, quando di là è sera; e questi, che ne fé scala col pelo, fitto è ancora sì come prim’era.120
Da questa parte cadde giù dal cielo; e la terra, che pria di qua si sporse, per paura di lui fé del mar velo,123
e venne a l’emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch’appar di qua, e sù ricorse”.126
Luogo è là giù da Belzebù remoto tanto quanto la tomba si distende, che non per vista, ma per suono è noto129
d’un ruscelletto che quivi discende per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso, col corso ch’elli avvolge, e poco pende.132
Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d’alcun riposo,135
salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.138
Nell’undicesimo canto Dante e Virgilio si fermano: devono aspettare che i loro nasi si abituino al terribile puzzo che sale dai gironi inferiori. Approfittano della sosta per parlare e Virgilio spiega a Dante com’è la situazione nella parte dell’inferno in cui stanno entrando.
In su l’estremità d’un’alta ripa che facevan gran pietre rotte in cerchio, venimmo sopra più crudele stipa; 3
e quivi, per l’orribile soperchio del puzzo che ’l profondo abisso gitta, ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio 6
d’un grand’avello, ov’io vidi una scritta che dicea: ’Anastasio papa guardo, lo qual trasse Fotin de la via dritta’. 9
“Lo nostro scender conviene esser tardo, sì che s’ausi un poco in prima il senso al tristo fiato; e poi no i fia riguardo”. 12
Così ’l maestro; e io “Alcun compenso”, dissi lui, “trova che ’l tempo non passi perduto”. Ed elli: “Vedi ch’a ciò penso”. 15
“Figliuol mio, dentro da cotesti sassi”, cominciò poi a dir, “son tre cerchietti di grado in grado, come que’ che lassi. 18
Tutti son pien di spirti maladetti; ma perché poi ti basti pur la vista, intendi come e perché son costretti. 21
D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista, ingiuria è ‘l fine, ed ogne fin cotale o con forza o con frode altrui contrista. 24
Ma perché frode è de l’uom proprio male, più spiace a Dio; e però stan di sotto li frodolenti, e più dolor li assale. 27
Di vïolenti il primo cerchio è tutto; ma perché si fa forza a tre persone, in tre gironi è distinto e costrutto. 30
A Dio, a sé, al prossimo si pòne far forza, dico in loro e in lor cose, come udirai con aperta ragione. 33
Morte per forza e ferute dogliose nel prossimo si danno, e nel suo avere ruine, incendi e tollette dannose; 36
onde omicide e ciascun che mal fiere, guastatori e predon, tutti tormenta lo giron primo per diverse schiere. 39
Puote omo avere in sé man vïolenta e ne’ suoi beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta 42
qualunque priva sé del vostro mondo, biscazza e fonde la sua facultade, e piange là dov’esser de’ giocondo. 45
Puossi far forza ne la deïtade, col cor negando e bestemmiando quella, e spregiando natura e sua bontade; 48
e però lo minor giron suggella del segno suo e Soddoma e Caorsa e chi, spregiando Dio col cor, favella. 51
La frode, ond’ogne coscïenza è morsa, può l’omo usare in colui che ‘n lui fida e in quel che fidanza non imborsa. 54
Questo modo di retro par ch’incida pur lo vinco d’amor che fa natura; onde nel cerchio secondo s’annida 57
ipocresia, lusinghe e chi affattura, falsità, ladroneccio e simonia, ruffian, baratti e simile lordura. 60
Per l’altro modo quell’amor s’oblia che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto, di che la fede spezïal si cria; 63
onde nel cerchio minore, ov’è ’l punto de l’universo in su che Dite siede, qualunque trade in etterno è consunto”.66
E io: “Maestro, assai chiara procede la tua ragione, e assai ben distingue questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede. 69
Ma dimmi: quei de la palude pingue, che mena il vento, e che batte la pioggia, e che s’incontran con sì aspre lingue, 72
perché non dentro da la città roggia sono ei puniti, se Dio li ha in ira? e se non li ha, perché sono a tal foggia?”. 75
Ed elli a me “Perché tanto delira”, disse, “lo ’ngegno tuo da quel che sòle? o ver la mente dove altrove mira? 78
Non ti rimembra di quelle parole con le quai la tua Etica pertratta le tre disposizion che ’l ciel non vole, 81
incontenenza, malizia e la matta bestialitade? e come incontenenza men Dio offende e men biasimo accatta? 84.
Se tu riguardi ben questa sentenza, e rechiti a la mente chi son quelli che sù di fuor sostegnon penitenza, 87
tu vedrai ben perché da questi felli sien dipartiti, e perché men crucciata la divina vendetta li martelli”. 90
“O sol che sani ogne vista turbata, tu mi contenti sì quando tu solvi, che, non men che saver, dubbiar m’aggrata. 93
Ancora in dietro un poco ti rivolvi”, diss’io, “là dove di’ ch’usura offende la divina bontade, e ’l groppo solvi”.96
“Filosofia”, mi disse, “a chi la ’ntende, nota, non pure in una sola parte, come natura lo suo corso prende 99
dal divino ’ntelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, 102
che l’arte vostra quella, quanto pote, segue, come ’l maestro fa ’l discente; sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.105
Da queste due, se tu ti rechi a mente lo Genesì dal principio, convene prender sua vita e avanzar la gente; 108
e perché l’usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch’in altro pon la spene. 111
Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace; ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta, e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace, 114
e ’l balzo via là oltra si dismonta”.
Dodicesimo canto
Nel dodicesimo canto Dante e Virgilio, dopo essersi fermati a chiacchiere per abituare il naso al puzzo infernale, scendono nel settimo cerchio dell’inferno. Qui scontano i loro peccati i tiranni, che sono immersi nel sangue del Flegetonte. Sono controllati da alcuni centauri. Proprio un centauro aiuterà Dante ad attraversare il Flegetonte.
Era lo loco ov’a scender la riva venimmo, alpestro e, per quel che v’er’anco, tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva. 3
Qual è quella ruina che nel fianco di qua da Trento l’Adice percosse, o per tremoto o per sostegno manco, 6
che da cima del monte, onde si mosse, al piano è sì la roccia discoscesa, ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse: 9
cotal di quel burrato era la scesa; e ’n su la punta de la rotta lacca l’infamïa di Creti era distesa 12
che fu concetta ne la falsa vacca; e quando vide noi, sé stesso morse, sì come quei cui l’ira dentro fiacca. 15
Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse tu credi che qui sia ’l duca d’Atene, che sù nel mondo la morte ti porse? 18
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene ammaestrato da la tua sorella, ma vassi per veder le vostre pene”. 21
Qual è quel toro che si slaccia in quella c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale, che gir non sa, ma qua e là saltella, 24
vid’io lo Minotauro far cotale; e quello accorto gridò: “Corri al varco; mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale”. 27
Così prendemmo via giù per lo scarco di quelle pietre, che spesso moviensi sotto i miei piedi per lo novo carco. 30
Io gia pensando; e quei disse: “Tu pensi forse a questa ruina, ch’è guardata da quell’ira bestial ch’i’ ora spensi. 33
Or vo’ che sappi che l’altra fïata ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno, questa roccia non era ancor cascata. 36
Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, 39
da tutte parti l’alta valle feda tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo sentisse amor, per lo qual è chi creda 42
più volte il mondo in caòsso converso; e in quel punto questa vecchia roccia, qui e altrove, tal fece riverso. 45
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia la riviera del sangue in la qual bolle qual che per vïolenza in altrui noccia”. 48
Oh cieca cupidigia e ira folle, che sì ci sproni ne la vita corta, e ne l’etterna poi sì mal c’immolle! 51
Io vidi un’ampia fossa in arco torta, come quella che tutto ’l piano abbraccia, secondo ch’avea detto la mia scorta; 54
e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia corrien centauri, armati di saette, come solien nel mondo andare a caccia. 57
Veggendoci calar, ciascun ristette, e de la schiera tre si dipartiro con archi e asticciuole prima elette; 60
e l’un gridò da lungi: “A qual martiro venite voi che scendete la costa? Ditel costinci; se non, l’arco tiro”. 63
Lo mio maestro disse: “La risposta farem noi a Chirón costà di presso: mal fu la voglia tua sempre sì tosta”. 66
Poi mi tentò, e disse: “Quelli è Nesso, che morì per la bella Deianira, e fé di sé la vendetta elli stesso. 69
E quel di mezzo, ch’al petto si mira, è il gran Chirón, il qual nodrì Achille; quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira. 72
Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue più che sua colpa sortille”. 75
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: Chirón prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle. 78
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca, disse a’ compagni: “Siete voi accorti che quel di retro move ciò ch’el tocca? 81
Così non soglion far li piè d’i morti”. E ’l mio buon duca, che già li er’al petto, dove le due nature son consorti, 84
rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto mostrar li mi convien la valle buia; necessità ’l ci ’nduce, e non diletto. 87
Tal si partì da cantare alleluia che mi commise quest’officio novo: non è ladron, né io anima fuia. 90
Ma per quella virtù per cu’ io movo li passi miei per sì selvaggia strada, danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, 93
e che ne mostri là dove si guada, e che porti costui in su la groppa, ché non è spirto che per l’aere vada”. 96
Chirón si volse in su la destra poppa, e disse a Nesso: “Torna, e sì li guida, e fa cansar s’altra schiera v’intoppa”. 99
Or ci movemmo con la scorta fida lungo la proda del bollor vermiglio, dove i bolliti facieno alte strida. 102
Io vidi gente sotto infino al ciglio; e ’l gran centauro disse: “E’ son tiranni che dier nel sangue e ne l’aver di piglio. 105
Quivi si piangon li spietati danni; quivi è Alessandro, e Dïonisio fero che fé Cicilia aver dolorosi anni. 108
E quella fronte c’ ha ’l pel così nero, è Azzolino; e quell’altro ch’è biondo, è Opizzo da Esti, il qual per vero 111
fu spento dal figliastro sù nel mondo”. Allor mi volsi al poeta, e quei disse: “Questi ti sia or primo, e io secondo”. 114
Poco più oltre il centauro s’affisse sovr’una gente che ’nfino a la gola parea che di quel bulicame uscisse. 117
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola, dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola”. 120
Poi vidi gente che di fuor del rio tenean la testa e ancor tutto ’l casso; e di costoro assai riconobb’io. 123
Così a più a più si facea basso quel sangue, sì che cocea pur li piedi; e quindi fu del fosso il nostro passo. 126
“Sì come tu da questa parte vedi lo bulicame che sempre si scema”, disse ’l centauro, “voglio che tu credi 129
che da quest’altra a più a più giù prema lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge ove la tirannia convien che gema. 132
La divina giustizia di qua punge quell’Attila che fu flagello in terra, e Pirro e Sesto; e in etterno munge 135
le lagrime, che col bollor diserra, a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo, che fecero a le strade tanta guerra”. 138
Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo.
Tredicesimo canto
Nel canto XIII Dante ci presenta le anime di coloro che sono stati violenti contro sé stessi. Qui Dante affronta con delicatezza e rispetto il tema del suicidio attraverso la figura di Pier della Vigna, che era stato consigliere dell’Imperatore Federico II di Svevia.
Non era ancor di là Nesso arrivato, quando noi ci mettemmo per un bosco che da neun sentiero era segnato. 3
Non fronda verde, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. 6
Non han sì aspri sterpi né sì folti quelle fiere selvagge che ’n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 9
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno. 12
Ali hanno late, e colli e visi umani, piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre; fanno lamenti in su li alberi strani. 15
E ’l buon maestro “Prima che più entre, sappi che se’ nel secondo girone”, mi cominciò a dire, “e sarai mentre 18
che tu verrai ne l’orribil sabbione. Però riguarda ben; sì vederai cose che torrien fede al mio sermone”. 21
Io sentia d’ogne parte trarre guai e non vedea persona che ’l facesse; per ch’io tutto smarrito m’arrestai. 24
Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse che tante voci uscisser, tra quei bronchi, da gente che per noi si nascondesse. 27
Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi qualche fraschetta d’una d’este piante, li pensier c’ hai si faran tutti monchi”. 30
Allor porsi la mano un poco avante e colsi un ramicel da un gran pruno; e ’l tronco suo gridò: “Perché mi schiante?”. 33
Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: “Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? 36
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: ben dovrebb’esser la tua man più pia, se state fossimo anime di serpi”. 39
Come d’un stizzo verde ch’arso sia da l’un de’ capi, che da l’altro geme e cigola per vento che va via, 42
sì de la scheggia rotta usciva insieme parole e sangue; ond’io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme. 45
“S’elli avesse potuto creder prima”, rispuose ’l savio mio, “anima lesa, ciò c’ ha veduto pur con la mia rima, 48
non averebbe in te la man distesa; ma la cosa incredibile mi fece indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 51
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi nel mondo sù, dove tornar li lece”. 54
E ’l tronco: “Sì col dolce dir m’adeschi, ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi. 57
Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando, sì soavi, 60
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi; fede portai al glorïoso offizio, tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 63
La meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse li occhi putti, morte comune e de le corti vizio, 66
infiammò contra me li animi tutti; e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 69
L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto. 72
Per le nove radici d’esto legno vi giuro che già mai non ruppi fede al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 75
E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace ancor del colpo che ’nvidia le diede”. 78
Un poco attese, e poi “Da ch’el si tace”, disse ’l poeta a me, “non perder l’ora; ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace”. 81
Ond’ïo a lui: “Domandal tu ancora di quel che credi ch’a me satisfaccia; ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora”. 84
Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia liberamente ciò che ’l tuo dir priega, spirito incarcerato, ancor ti piaccia 87
di dirne come l’anima si lega in questi nocchi; e dinne, se tu puoi, s’alcuna mai di tai membra si spiega”. 90
Allor soffiò il tronco forte, e poi si convertì quel vento in cotal voce: “Brievemente sarà risposto a voi. 93
Quando si parte l’anima feroce dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta, Minòs la manda a la settima foce. 96
Cade in la selva, e non l’è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra, quivi germoglia come gran di spelta. 99
Surge in vermena e in pianta silvestra: l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra. 102
Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta, ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. 105
Qui le strascineremo, e per la mesta selva saranno i nostri corpi appesi, ciascuno al prun de l’ombra sua molesta”. 108
Noi eravamo ancora al tronco attesi, credendo ch’altro ne volesse dire, quando noi fummo d’un romor sorpresi, 111
similemente a colui che venire sente ’l porco e la caccia a la sua posta, ch’ode le bestie, e le frasche stormire. 114
Ed ecco due da la sinistra costa, nudi e graffiati, fuggendo sì forte, che de la selva rompieno ogne rosta. 117
Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”. E l’altro, cui pareva tardar troppo, gridava: “Lano, sì non furo accorte 120
le gambe tue a le giostre dal Toppo!”. E poi che forse li fallia la lena, di sé e d’un cespuglio fece un groppo. 123
Di rietro a loro era la selva piena di nere cagne, bramose e correnti come veltri ch’uscisser di catena. 126
In quel che s’appiattò miser li denti, e quel dilaceraro a brano a brano; poi sen portar quelle membra dolenti. 129
Presemi allor la mia scorta per mano, e menommi al cespuglio che piangea per le rotture sanguinenti in vano. 132
“O Iacopo”, dicea, “da Santo Andrea, che t’è giovato di me fare schermo? che colpa ho io de la tua vita rea?”. 135
Quando ’l maestro fu sovr’esso fermo, disse: “Chi fosti, che per tante punte soffi con sangue doloroso sermo?”. 138
Ed elli a noi: “O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto c’ ha le mie fronde sì da me disgiunte, 141
raccoglietele al piè del tristo cesto. I’ fui de la città che nel Batista mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo 144
sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che ’n sul passo d’Arno rimane ancor di lui alcuna vista, 147
que’ cittadin che poi la rifondarno sovra ’l cener che d’Attila rimase, avrebber fatto lavorare indarno. 150
Io fei gibetto a me de le mie case”.
Quattordicesimo canto
Nel terzo girone del settimo cerchio sono puniti i violenti contro Dio e contro la natura. Questi si trovano su un sabbione infuocato sotto una pioggia di fuoco. In questo girone incontra l’arrogante Capaneo, terribile bestemmiatore che per la sua arroganza fu fulminato da Giove.
Poi che la carità del natio loco mi strinse, raunai le fronde sparte e rende’ le a colui, ch’era già fioco. 3
Indi venimmo al fine ove si parte lo secondo giron dal terzo, e dove si vede di giustizia orribil arte. 6
A ben manifestar le cose nove, dico che arrivammo ad una landa che dal suo letto ogne pianta rimove. 9
La dolorosa selva l’è ghirlanda intorno, come ’l fosso tristo ad essa; quivi fermammo i passi a randa a randa. 12
Lo spazzo era una rena arida e spessa, non d’altra foggia fatta che colei che fu da’ piè di Caton già soppressa. 15
O vendetta di Dio, quanto tu dei esser temuta da ciascun che legge ciò che fu manifesto a li occhi mei! 18
D’anime nude vidi molte gregge che piangean tutte assai miseramente, e parea posta lor diversa legge. 21
Supin giacea in terra alcuna gente, alcuna si sedea tutta raccolta, e altra andava continüamente. 24
Quella che giva ’ntorno era più molta, e quella men che giacëa al tormento, ma più al duolo avea la lingua sciolta. 27
Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, piovean di foco dilatate falde, come di neve in alpe sanza vento. 30
Quali Alessandro in quelle parti calde d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo fiamme cadere infino a terra salde, 33
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo con le sue schiere, acciò che lo vapore mei si stingueva mentre ch’era solo: 36
tale scendeva l’etternale ardore; onde la rena s’accendea, com’esca sotto focile, a doppiar lo dolore. 39
Sanza riposo mai era la tresca de le misere mani, or quindi or quinci escotendo da sé l’arsura fresca. 42
I’ cominciai: “Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ’ demon duri ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci, 45
chi è quel grande che non par che curi lo ’ncendio e giace dispettoso e torto, sì che la pioggia non par che ’l marturi?”. 48
E quel medesmo, che si fu accorto ch’io domandava il mio duca di lui, gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto. 51
Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l’ultimo dì percosso fui; 54
o s’elli stanchi li altri a muta a muta in Mongibello a la focina negra, chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”, 57
sì com’el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza: non ne potrebbe aver vendetta allegra”. 60
Allora il duca mio parlò di forza tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito: “O Capaneo, in ciò che non s’ammorza 63
la tua superbia, se’ tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito”. 66
Poi si rivolse a me con miglior labbia, dicendo: “Quei fu l’un d’i sette regi ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia 69
Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi; ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti sono al suo petto assai debiti fregi. 72
Or mi vien dietro, e guarda che non metti, ancor, li piedi ne la rena arsiccia; ma sempre al bosco tien li piedi stretti”. 75
Tacendo divenimmo là ’ve spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia. 78
Quale del Bulicame esce ruscello che parton poi tra lor le peccatrici, tal per la rena giù sen giva quello. 81
Lo fondo suo e ambo le pendici fatt’era ’n pietra, e ’ margini dallato; per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici. 84
“Tra tutto l’altro ch’i’ t’ ho dimostrato, poscia che noi intrammo per la porta lo cui sogliare a nessuno è negato, 87
cosa non fu da li tuoi occhi scorta notabile com’è ’l presente rio, che sovra sé tutte fiammelle ammorta”. 90
Queste parole fuor del duca mio; per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto di cui largito m’avëa il disio. 93
“In mezzo mar siede un paese guasto”, diss’elli allora, “che s’appella Creta, sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. 96
Una montagna v’è che già fu lieta d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida; or è diserta come cosa vieta. 99
Rëa la scelse già per cuna fida del suo figliuolo, e per celarlo meglio, quando piangea, vi facea far le grida. 102
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, che tien volte le spalle inver’ Dammiata e Roma guarda come süo speglio. 105
La sua testa è di fin oro formata, e puro argento son le braccia e ’l petto, poi è di rame infino a la forcata; 108
da indi in giuso è tutto ferro eletto, salvo che ’l destro piede è terra cotta; e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto. 111
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta d’una fessura che lagrime goccia, le quali, accolte, fóran quella grotta. 114
Lor corso in questa valle si diroccia; fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; poi sen van giù per questa stretta doccia, 117
infin, là ove più non si dismonta, fanno Cocito; e qual sia quello stagno tu lo vedrai, però qui non si conta”. 120
E io a lui: “Se ’l presente rigagno si diriva così dal nostro mondo, perché ci appar pur a questo vivagno?”. 123
Ed elli a me: “Tu sai che ’l loco è tondo; e tutto che tu sie venuto molto, pur a sinistra, giù calando al fondo, 126
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto; per che, se cosa n’apparisce nova, non de’ addur maraviglia al tuo volto”. 129
E io ancor: “Maestro, ove si trova Flegetonta e Letè? ché de l’un taci, e l’altro di’ che si fa d’esta piova”. 132
“In tutte tue question certo mi piaci”, rispuose, “ma ’l bollor de l’acqua rossa dovea ben solver l’una che tu faci. 135
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa, là dove vanno l’anime a lavarsi quando la colpa pentuta è rimossa”. 138
Poi disse: “Omai è tempo da scostarsi dal bosco; fa che di retro a me vegne: li margini fan via, che non son arsi, 141
e sopra loro ogne vapor si spegne”.
Quindicesimo canto
Nel canto XV Dante e Virgilio sono ancora sul bordo del sabbione ardente. Mentre guardano alla schiera che corre sotto la pioggia di fuoco un’anima si rivolge a Dante. Si tratta del suo maestro Brunetto Latini, autore del Tesoretto, un importante testo medievale. Brunetto ha avuto un ruolo importante nella formazione di Dante e il discepolo prova grande riconoscenza in confronto di “Ser Brunetto”.
Ora cen porta l’un de’ duri margini; e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia, sì che dal foco salva l’acqua e li argini. 3
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa, fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia; 6
e quali Padoan lungo la Brenta, per difender lor ville e lor castelli, anzi che Carentana il caldo senta: 9
a tale imagine eran fatti quelli, tutto che né sì alti né sì grossi, qual che si fosse, lo maestro félli. 12
Già eravam da la selva rimossi tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era, perch’io in dietro rivolto mi fossi, 15
quando incontrammo d’anime una schiera che venian lungo l’argine, e ciascuna ci riguardava come suol da sera 18
guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. 21
Così adocchiato da cotal famiglia, fui conosciuto da un, che mi prese per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”. 24
E io, quando ’l suo braccio a me distese, ficcaï li occhi per lo cotto aspetto, sì che ’l viso abbrusciato non difese 27
la conoscenza süa al mio ’ntelletto; e chinando la mano a la sua faccia, rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”. 30
E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia”. 33
I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco; e se volete che con voi m’asseggia, faròl, se piace a costui che vo seco”. 36
“O figliuol”, disse, “qual di questa greggia s’arresta punto, giace poi cent’anni sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. 39
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; e poi rigiugnerò la mia masnada, che va piangendo i suoi etterni danni”. 42
Io non osava scender de la strada per andar par di lui; ma ’l capo chino tenea com’uom che reverente vada. 45
El cominciò: “Qual fortuna o destino anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? e chi è questi che mostra ’l cammino?”. 48
“Là sù di sopra, in la vita serena”, rispuos’io lui, “mi smarri’ in una valle, avanti che l’età mia fosse piena.51
Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m’apparve, tornand’ïo in quella, e reducemi a ca per questo calle”.54
Ed elli a me: “Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorïoso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella;57
e s’io non fossi sì per tempo morto, veggendo il cielo a te così benigno, dato t’avrei a l’opera conforto.60
Ma quello ingrato popolo maligno che discese di Fiesole ab antico, e tiene ancor del monte e del macigno,63
ti si farà, per tuo ben far, nimico; ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico.66
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi.69
La tua fortuna tanto onor ti serba, che l’una parte e l’altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba.72
Faccian le bestie fiesolane strame di lor medesme, e non tocchin la pianta, s’alcuna surge ancora in lor letame,75
in cui riviva la sementa santa di que’ Roman che vi rimaser quando fu fatto il nido di malizia tanta”.78
“Se fosse tutto pieno il mio dimando”, rispuos’io lui, “voi non sareste ancora de l’umana natura posto in bando;81
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, la cara e buona imagine paterna di voi quando nel mondo ad ora ad ora84
m’insegnavate come l’uom s’etterna: e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo convien che ne la mia lingua si scerna.87
Ciò che narrate di mio corso scrivo, e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s’a lei arrivo.90
Tanto vogl’io che vi sia manifesto, pur che mia coscïenza non mi garra, ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.93
Non è nuova a li orecchi miei tal arra: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e ’l villan la sua marra”.96
Lo mio maestro allora in su la gota destra si volse in dietro e riguardommi; poi disse: “Bene ascolta chi la nota”.99
Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi.102
Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché ’l tempo saria corto a tanto suono.105
In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d’un peccato medesmo al mondo lerci.108
Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d’Accorso anche; e vedervi, s’avessi avuto di tal tigna brama,111
colui potei che dal servo de’ servi fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi.114
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone più lungo esser non può, però ch’i’ veggio là surger nuovo fummo del sabbione.117
Gente vien con la quale esser non deggio. Sieti raccomandato il mio Tesoro, nel qual io vivo ancora, e più non cheggio”.120
Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro123
quelli che vince, non colui che perde.
Sedicesimo canto
Il sedicesimo canto può essere diviso in due parti. Si trovano ancora nel girone dei sodomiti quando vendono fermati da tre fiorentini che si staccano da un’altra schera di anime che corrono lungo il sabbione infernale. Nella seconda parte i due pellegrini si avviano verso il successivo cerchio a cui arriveranno tramite un altro terribile custode infernale: Gerione.
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo de l’acqua che cadea ne l’altro giro, simile a quel che l’arnie fanno rombo, 3
quando tre ombre insieme si partiro, correndo, d’una torma che passava sotto la pioggia de l’aspro martiro. 6
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava: “Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri essere alcun di nostra terra prava”. 9
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri, ricenti e vecchie, da le fiamme incese! Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri. 12
A le lor grida il mio dottor s’attese; volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta”, disse, “a costor si vuole esser cortese. 15
E se non fosse il foco che saetta la natura del loco, i’ dicerei che meglio stesse a te che a lor la fretta”. 18
Ricominciar, come noi restammo, ei l’antico verso; e quando a noi fuor giunti, fenno una rota di sé tutti e trei. 21
Qual sogliono i campion far nudi e unti, avvisando lor presa e lor vantaggio, prima che sien tra lor battuti e punti, 24
così rotando, ciascuno il visaggio drizzava a me, sì che ’n contraro il collo faceva ai piè continüo vïaggio. 27
E “Se miseria d’esto loco sollo rende in dispetto noi e nostri prieghi”, cominciò l’uno, “e ’l tinto aspetto e brollo, 30
la fama nostra il tuo animo pieghi a dirne chi tu se’, che i vivi piedi così sicuro per lo ’nferno freghi. 33
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi, tutto che nudo e dipelato vada, fu di grado maggior che tu non credi: 36
nepote fu de la buona Gualdrada; Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita fece col senno assai e con la spada. 39
L’altro, ch’appresso me la rena trita, è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce nel mondo sù dovria esser gradita. 42
E io, che posto son con loro in croce, Iacopo Rusticucci fui, e certo la fiera moglie più ch’altro mi nuoce”. 45
S’i’ fossi stato dal foco coperto, gittato mi sarei tra lor di sotto, e credo che ’l dottor l’avria sofferto; 48
ma perch’io mi sarei brusciato e cotto, vinse paura la mia buona voglia che di loro abbracciar mi facea ghiotto. 51
Poi cominciai: “Non dispetto, ma doglia la vostra condizion dentro mi fisse, tanta che tardi tutta si dispoglia, 54
tosto che questo mio segnor mi disse parole per le quali i’ mi pensai che qual voi siete, tal gente venisse. 57
Di vostra terra sono, e sempre mai l’ovra di voi e li onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai. 60
Lascio lo fele e vo per dolci pomi promessi a me per lo verace duca; ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi”. 63
“Se lungamente l’anima conduca le membra tue”, rispuose quelli ancora, “e se la fama tua dopo te luca, 66
cortesia e valor dì se dimora ne la nostra città sì come suole, o se del tutto se n’è gita fora; 69
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole con noi per poco e va là coi compagni, assai ne cruccia con le sue parole”.72
“La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni”.75
Così gridai con la faccia levata; e i tre, che ciò inteser per risposta, guardar l’un l’altro com’al ver si guata.78
“Se l’altre volte sì poco ti costa”, rispuoser tutti, “il satisfare altrui, felice te se sì parli a tua posta!81
Però, se campi d’esti luoghi bui e torni a riveder le belle stelle, quando ti gioverà dicere “I’ fui”,84
fa che di noi a la gente favelle”. Indi rupper la rota, e a fuggirsi ali sembiar le gambe loro isnelle.87
Un amen non saria possuto dirsi tosto così com’e’ fuoro spariti; per ch’al maestro parve di partirsi.90
Io lo seguiva, e poco eravam iti, che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino, che per parlar saremmo a pena uditi.93
Come quel fiume c’ ha proprio cammino prima dal Monte Viso ’nver’ levante, da la sinistra costa d’Apennino,96
che si chiama Acquacheta suso, avante che si divalli giù nel basso letto, e a Forlì di quel nome è vacante,99
rimbomba là sovra San Benedetto de l’Alpe per cadere ad una scesa ove dovea per mille esser recetto;102
così, giù d’una ripa discoscesa, trovammo risonar quell’acqua tinta, sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa.105
Io avea una corda intorno cinta, e con essa pensai alcuna volta prender la lonza a la pelle dipinta.108
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta, sì come ’l duca m’avea comandato, porsila a lui aggroppata e ravvolta.111
Ond’ei si volse inver’ lo destro lato, e alquanto di lunge da la sponda la gittò giuso in quell’alto burrato.114
’E’ pur convien che novità risponda’, dicea fra me medesmo, ’al novo cenno che ’l maestro con l’occhio sì seconda’.117
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno presso a color che non veggion pur l’ovra, ma per entro i pensier miran col senno!120
El disse a me: “Tosto verrà di sovra ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna; tosto convien ch’al tuo viso si scovra”.123
Sempre a quel ver c’ ha faccia di menzogna de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote, però che sanza colpa fa vergogna;126
ma qui tacer nol posso; e per le note di questa comedìa, lettor, ti giuro, s’elle non sien di lunga grazia vòte,129
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro venir notando una figura in suso, maravigliosa ad ogne cor sicuro,132
sì come torna colui che va giuso talora a solver l’àncora ch’aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso,135
che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.
Diciassettesimo canto
Questo canto è diviso in tre parti. Nella prima incontriamo Gerione, l’orribile bestia, che porterà Dante e Virgilio nel cerchio successivo. Mentre Virgilio prende accordi con Gerione per scendere nell’ ottavo cerchio de l’inferno, Dante va a parlare con l’ultima schiera dei violenti, gli usurai. Quindi Dante torna a Virgilio e si accinge a fare un incredibile volo verso l’ottavo cerchio, sul dorso di Gerione.
“Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rompe i muri e l’armi! Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!”.3
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi; e accennolle che venisse a proda, vicino al fin d’i passeggiati marmi.6
E quella sozza imagine di froda sen venne, e arrivò la testa e ’l busto, ma ’n su la riva non trasse la coda.9
La faccia sua era faccia d’uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d’un serpente tutto l’altro fusto;12
due branche avea pilose insin l’ascelle; lo dosso e ’l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle.15
Con più color, sommesse e sovraposte non fer mai drappi Tartari né Turchi, né fuor tai tele per Aragne imposte.18
Come talvolta stanno a riva i burchi, che parte sono in acqua e parte in terra, e come là tra li Tedeschi lurchi21
lo bivero s’assetta a far sua guerra, così la fiera pessima si stava su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.24
Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in sù la venenosa forca ch’a guisa di scorpion la punta armava.27
Lo duca disse: “Or convien che si torca la nostra via un poco insino a quella bestia malvagia che colà si corca”.30
Però scendemmo a la destra mammella, e diece passi femmo in su lo stremo, per ben cessar la rena e la fiammella.33
E quando noi a lei venuti semo, poco più oltre veggio in su la rena gente seder propinqua al loco scemo.36
Quivi ’l maestro “Acciò che tutta piena esperïenza d’esto giron porti”, mi disse, “va, e vedi la lor mena.39
Li tuoi ragionamenti sian là corti; mentre che torni, parlerò con questa, che ne conceda i suoi omeri forti”.42
Così ancor su per la strema testa di quel settimo cerchio tutto solo andai, dove sedea la gente mesta.45
Per li occhi fora scoppiava lor duolo; di qua, di là soccorrien con le mani quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:48
non altrimenti fan di state i cani or col ceffo or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani.51
Poi che nel viso a certi li occhi porsi, ne’ quali ’l doloroso foco casca, non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi54
che dal collo a ciascun pendea una tasca ch’avea certo colore e certo segno, e quindi par che ’l loro occhio si pasca.57
E com’io riguardando tra lor vegno, in una borsa gialla vidi azzurro che d’un leone avea faccia e contegno.60
Poi, procedendo di mio sguardo il curro, vidine un’altra come sangue rossa, mostrando un’oca bianca più che burro.63
E un che d’una scrofa azzurra e grossa segnato avea lo suo sacchetto bianco, mi disse: “Che fai tu in questa fossa?66
Or te ne va; e perché se’ vivo anco, sappi che ’l mio vicin Vitalïano sederà qui dal mio sinistro fianco.69
Con questi Fiorentin son padoano: spesse fïate mi ’ntronan li orecchi gridando: “Vegna ’l cavalier sovrano,72
che recherà la tasca con tre becchi!””. Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che ’l naso lecchi.75
E io, temendo no ’l più star crucciasse lui che di poco star m’avea ’mmonito, torna’ mi in dietro da l’anime lasse.78
Trova’ il duca mio ch’era salito già su la groppa del fiero animale, e disse a me: “Or sie forte e ardito.81
Omai si scende per sì fatte scale; monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo, sì che la coda non possa far male”.84
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo de la quartana, c’ ha già l’unghie smorte, e triema tutto pur guardando ’l rezzo,87
tal divenn’io a le parole porte; ma vergogna mi fé le sue minacce, che innanzi a buon segnor fa servo forte.90
I’ m’assettai in su quelle spallacce; sì volli dir, ma la voce non venne com’io credetti: ’Fa che tu m’abbracce’.93
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne ad altro forse, tosto ch’i’ montai con le braccia m’avvinse e mi sostenne;96
e disse: “Gerïon, moviti omai: le rote larghe, e lo scender sia poco; pensa la nova soma che tu hai”.99
Come la navicella esce di loco in dietro in dietro, sì quindi si tolse; e poi ch’al tutto si sentì a gioco,102
là ’v’era ’l petto, la coda rivolse, e quella tesa, come anguilla, mosse, e con le branche l’aere a sé raccolse.105
Maggior paura non credo che fosse quando Fetonte abbandonò li freni, per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;108
né quando Icaro misero le reni sentì spennar per la scaldata cera, gridando il padre a lui “Mala via tieni!”,111
che fu la mia, quando vidi ch’i’ era ne l’aere d’ogne parte, e vidi spenta ogne veduta fuor che de la fera.114
Ella sen va notando lenta lenta; rota e discende, ma non me n’accorgo se non che al viso e di sotto mi venta.117
Io sentia già da la man destra il gorgo far sotto noi un orribile scroscio, per che con li occhi ’n giù la testa sporgo.120
Allor fu’ io più timido a lo stoscio, però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti; ond’io tremando tutto mi raccoscio.123
E vidi poi, ché nol vedea davanti, lo scendere e ’l girar per li gran mali che s’appressavan da diversi canti.126
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali, che sanza veder logoro o uccello fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”,129
discende lasso onde si move isnello, per cento rote, e da lunge si pone dal suo maestro, disdegnoso e fello;132
così ne puose al fondo Gerïone al piè al piè de la stagliata rocca, e, discarcate le nostre persone,135
si dileguò come da corda cocca.
Diciottesimo canto
I due pellegrini vengono lasciati sul bordo dell’ottavo girone che raccoglie le anime dei frudolenti.
La varietà dei peccatori è tale che il girone è diviso in dieci bolge, una per ogni tipo di frode.
1.seduttori
2.adulatori
3.simoniaci
4.indovini
5.barattieri
6.ipocriti
7.ladri
8.mali consiglieri
9.seminatori di discordie
10.falsari e alchimisti
Nel canto XVIII vediamo le prime due malebolge, quelle dei seduttori e degli adulatori.
Luogo è in inferno detto Malebolge, tutto di pietra di color ferrigno, come la cerchia che dintorno il volge.3
Nel dritto mezzo del campo maligno vaneggia un pozzo assai largo e profondo, di cui suo loco dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura, e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura più e più fossi cingon li castelli, la parte dove son rende figura,12
tale imagine quivi facean quelli; e come a tai fortezze da’ lor sogli a la ripa di fuor son ponticelli,15
così da imo de la roccia scogli movien che ricidien li argini e ’ fossi infino al pozzo che i tronca e raccogli.18
In questo luogo, de la schiena scossi di Gerïon, trovammoci; e ’l poeta tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.21
A la man destra vidi nova pieta, novo tormento e novi frustatori, di che la prima bolgia era repleta.24
Nel fondo erano ignudi i peccatori; dal mezzo in qua ci venien verso ’l volto, di là con noi, ma con passi maggiori,27
come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto,30
che da l’un lato tutti hanno la fronte verso ’l castello e vanno a Santo Pietro, da l’altra sponda vanno verso ’l monte.33
Di qua, di là, su per lo sasso tetro vidi demon cornuti con gran ferze, che li battien crudelmente di retro.36
Ahi come facean lor levar le berze a le prime percosse! già nessuno le seconde aspettava né le terze.39
Mentr’io andava, li occhi miei in uno furo scontrati; e io sì tosto dissi: “Già di veder costui non son digiuno”.42
Per ch’ïo a figurarlo i piedi affissi; e ’l dolce duca meco si ristette, e assentio ch’alquanto in dietro gissi.45
E quel frustato celar si credette bassando ’l viso; ma poco li valse, ch’io dissi: “O tu che l’occhio a terra gette,48
se le fazion che porti non son false, Venedico se’ tu Caccianemico. Ma che ti mena a sì pungenti salse?”.51
Ed elli a me: “Mal volontier lo dico; ma sforzami la tua chiara favella, che mi fa sovvenir del mondo antico.54
I’ fui colui che la Ghisolabella condussi a far la voglia del marchese, come che suoni la sconcia novella.57
E non pur io qui piango bolognese; anzi n’è questo loco tanto pieno, che tante lingue non son ora apprese60
a dicer ’sipa’ tra Sàvena e Reno; e se di ciò vuoi fede o testimonio, rècati a mente il nostro avaro seno”.63
Così parlando il percosse un demonio de la sua scurïada, e disse: “Via, ruffian! qui non son femmine da conio”.66
I’ mi raggiunsi con la scorta mia; poscia con pochi passi divenimmo là ’v’uno scoglio de la ripa uscia.69
Assai leggeramente quel salimmo; e vòlti a destra su per la sua scheggia, da quelle cerchie etterne ci partimmo.72
Quando noi fummo là dov’el vaneggia di sotto per dar passo a li sferzati, lo duca disse: “Attienti, e fa che feggia75
lo viso in te di quest’altri mal nati, ai quali ancor non vedesti la faccia però che son con noi insieme andati”.78
Del vecchio ponte guardavam la traccia che venìa verso noi da l’altra banda, e che la ferza similmente scaccia.81
E ’l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse: “Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda:84
quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasón, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati féne.87
Ello passò per l’isola di Lenno poi che l’ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno.90
Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l’altre ingannate.93
Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martiro lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta.96
Con lui sen va chi da tal parte inganna; e questo basti de la prima valle sapere e di color che ’n sé assanna”.99
Già eravam là ’ve lo stretto calle con l’argine secondo s’incrocicchia, e fa di quello ad un altr’arco spalle.102
Quindi sentimmo gente che si nicchia ne l’altra bolgia e che col muso scuffa, e sé medesma con le palme picchia.105
Le ripe eran grommate d’una muffa, per l’alito di giù che vi s’appasta, che con li occhi e col naso facea zuffa.108
Lo fondo è cupo sì, che non ci basta loco a veder sanza montare al dosso de l’arco, ove lo scoglio più sovrasta.111
Quivi venimmo; e quindi giù nel fosso vidi gente attuffata in uno sterco che da li uman privadi parea mosso.114
E mentre ch’io là giù con l’occhio cerco, vidi un col capo sì di merda lordo, che non parëa s’era laico o cherco.117
Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì gordo di riguardar più me che li altri brutti?”. E io a lui: “Perché, se ben ricordo,120
già t’ ho veduto coi capelli asciutti, e se’ Alessio Interminei da Lucca: però t’adocchio più che li altri tutti”.123
Ed elli allor, battendosi la zucca: “Qua giù m’ hanno sommerso le lusinghe ond’io non ebbi mai la lingua stucca”.126
Appresso ciò lo duca “Fa che pinghe”, mi disse, “il viso un poco più avante, sì che la faccia ben con l’occhio attinghe129
di quella sozza e scapigliata fante che là si graffia con l’unghie merdose, e or s’accoscia e ora è in piedi stante.132
Taïde è, la puttana che rispuose al drudo suo quando disse “Ho io grazie grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.135
E quinci sian le nostre viste sazie”.
Diciannovesimo canto
In questo canto Dante inveisce contro i simoniaci, religiosi che hanno venduto e comprato con il denaro le cose sacre, i beni spirituali e gli uffici ecclesiastici.
Molti papi si trovano qui in questa terza bolgia
O Simon mago, o miseri seguaci che le cose di Dio, che di bontate deon essere spose, e voi rapaci3
per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state.6
Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo scoglio in quella parte ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.9
O somma sapïenza, quanta è l’arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte!12
Io vidi per le coste e per lo fondo piena la pietra livida di fóri, d’un largo tutti e ciascun era tondo.15
Non mi parean men ampi né maggiori che que’ che son nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d’i battezzatori;18
l’un de li quali, ancor non è molt’anni, rupp’io per un che dentro v’annegava: e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.21
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava d’un peccator li piedi e de le gambe infino al grosso, e l’altro dentro stava.24
Le piante erano a tutti accese intrambe; per che sì forte guizzavan le giunte, che spezzate averien ritorte e strambe.27
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni a le punte.30
“Chi è colui, maestro, che si cruccia guizzando più che li altri suoi consorti”, diss’io, “e cui più roggia fiamma succia?”.33
Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti là giù per quella ripa che più giace, da lui saprai di sé e de’ suoi torti”.36
E io: “Tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace”.39
Allor venimmo in su l’argine quarto; volgemmo e discendemmo a mano stanca là giù nel fondo foracchiato e arto.42
Lo buon maestro ancor de la sua anca non mi dipuose, sì mi giunse al rotto di quel che si piangeva con la zanca.45
“O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto, anima trista come pal commessa”, comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto”.48
Io stava come ’l frate che confessa lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto, richiama lui per che la morte cessa.51
Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, se’ tu già costì ritto, Bonifazio? Di parecchi anni mi mentì lo scritto.54
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio per lo qual non temesti tòrre a ’nganno la bella donna, e poi di farne strazio?”.57
Tal mi fec’io, quai son color che stanno, per non intender ciò ch’è lor risposto, quasi scornati, e risponder non sanno.60
Allor Virgilio disse: “Dilli tosto: “Non son colui, non son colui che credi””; e io rispuosi come a me fu imposto.63
Per che lo spirto tutti storse i piedi; poi, sospirando e con voce di pianto, mi disse: “Dunque che a me richiedi?66
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto, che tu abbi però la ripa corsa, sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;69
e veramente fui figliuol de l’orsa, cupido sì per avanzar li orsatti, che sù l’avere e qui me misi in borsa.72
Di sotto al capo mio son li altri tratti che precedetter me simoneggiando, per le fessure de la pietra piatti.75
Là giù cascherò io altresì quando verrà colui ch’i’ credea che tu fossi, allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.78
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi e ch’i’ son stato così sottosopra, ch’el non starà piantato coi piè rossi:81
ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver’ ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra.84
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge ne’ Maccabei; e come a quel fu molle suo re, così fia lui chi Francia regge”.87
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle, ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro: “Deh, or mi dì: quanto tesoro volle90
Nostro Segnore in prima da san Pietro ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa? Certo non chiese se non “Viemmi retro”.93
Né Pier né li altri tolsero a Matia oro od argento, quando fu sortito al loco che perdé l’anima ria.96
Però ti sta, ché tu se’ ben punito; e guarda ben la mal tolta moneta ch’esser ti fece contra Carlo ardito.99
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta la reverenza de le somme chiavi che tu tenesti ne la vita lieta,102
io userei parole ancor più gravi; ché la vostra avarizia il mondo attrista, calcando i buoni e sollevando i pravi.105
Di voi pastor s’accorse il Vangelista, quando colei che siede sopra l’acque puttaneggiar coi regi a lui fu vista;108
quella che con le sette teste nacque, e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque.111
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; e che altro è da voi a l’idolatre, se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?114
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre!”.117
E mentr’io li cantava cotai note, o ira o coscïenza che ’l mordesse, forte spingava con ambo le piote.120
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse, con sì contenta labbia sempre attese lo suon de le parole vere espresse.123
Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, rimontò per la via onde discese.126
Né si stancò d’avermi a sé distretto, sì men portò sovra ’l colmo de l’arco che dal quarto al quinto argine è tragetto.129
Quivi soavemente spuose il carco, soave per lo scoglio sconcio ed erto che sarebbe a le capre duro varco.132
Indi un altro vallon mi fu scoperto.
Ventesimo canto
Nel ventesimo canto Dante e Virgilio attraversano nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dove sono puniti gli indovini. Questi sono obbligati a camminare a ritroso con la testa girata all’indietro. In questo canto poi Virgilio racconta a Dante quali sono le origini della città di Mantova.
Di nova pena mi conven far versi e dar matera al ventesimo canto de la prima canzon, ch’è d’i sommersi.3
Io era già disposto tutto quanto a riguardar ne lo scoperto fondo, che si bagnava d’angoscioso pianto;6
e vidi gente per lo vallon tondo venir, tacendo e lagrimando, al passo che fanno le letane in questo mondo.9
Come ’l viso mi scese in lor più basso, mirabilmente apparve esser travolto ciascun tra ’l mento e ’l principio del casso,12
ché da le reni era tornato ’l volto, e in dietro venir li convenia, perché ’l veder dinanzi era lor tolto.15
Forse per forza già di parlasia si travolse così alcun del tutto; ma io nol vidi, né credo che sia.18
Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com’io potea tener lo viso asciutto,21
quando la nostra imagine di presso vidi sì torta, che ’l pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso.24
Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi del duro scoglio, sì che la mia scorta mi disse: “Ancor se’ tu de li altri sciocchi?27
Qui vive la pietà quand’è ben morta; chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta?30
Drizza la testa, drizza, e vedi a cui s’aperse a li occhi d’i Teban la terra; per ch’ei gridavan tutti: “Dove rui,33
Anfïarao? perché lasci la guerra?”. E non restò di ruinare a valle fino a Minòs che ciascheduno afferra.36
Mira c’ ha fatto petto de le spalle; perché volse veder troppo davante, di retro guarda e fa retroso calle.39
Vedi Tiresia, che mutò sembiante quando di maschio femmina divenne, cangiandosi le membra tutte quante;42
e prima, poi, ribatter li convenne li duo serpenti avvolti, con la verga, che rïavesse le maschili penne.45
Aronta è quel ch’al ventre li s’atterga, che ne’ monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga,48
ebbe tra ’ bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e ’l mar non li era la veduta tronca.51
E quella che ricuopre le mammelle, che tu non vedi, con le trecce sciolte, e ha di là ogne pilosa pelle,54
Manto fu, che cercò per terre molte; poscia si puose là dove nacqu’ io; onde un poco mi piace che m’ascolte.57
Poscia che ’l padre suo di vita uscìo e venne serva la città di Baco, questa gran tempo per lo mondo gio.60
Suso in Italia bella giace un laco, a piè de l’Alpe che serra Lamagna sovra Tiralli, c’ ha nome Benaco.63
Per mille fonti, credo, e più si bagna tra Garda e Val Camonica e Pennino de l’acqua che nel detto laco stagna.66
Loco è nel mezzo là dove ’l trentino pastore e quel di Brescia e ’l veronese segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.69
Siede Peschiera, bello e forte arnese da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi, ove la riva ’ntorno più discese.72
Ivi convien che tutto quanto caschi ciò che ’n grembo a Benaco star non può, e fassi fiume giù per verdi paschi.75
Tosto che l’acqua a correr mette co, non più Benaco, ma Mencio si chiama fino a Governol, dove cade in Po.78
Non molto ha corso, ch’el trova una lama, ne la qual si distende e la ’mpaluda; e suol di state talor esser grama.81
Quindi passando la vergine cruda vide terra, nel mezzo del pantano, sanza coltura e d’abitanti nuda.84
Lì, per fuggire ogne consorzio umano, ristette con suoi servi a far sue arti, e visse, e vi lasciò suo corpo vano.87
Li uomini poi che ’ntorno erano sparti s’accolsero a quel loco, ch’era forte per lo pantan ch’avea da tutte parti.90
Fer la città sovra quell’ossa morte; e per colei che ’l loco prima elesse, Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.93
Già fuor le genti sue dentro più spesse, prima che la mattia da Casalodi da Pinamonte inganno ricevesse.96
Però t’assenno che, se tu mai odi originar la mia terra altrimenti, la verità nulla menzogna frodi”.99
E io: “Maestro, i tuoi ragionamenti mi son sì certi e prendon sì mia fede, che li altri mi sarien carboni spenti.102
Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; ché solo a ciò la mia mente rifiede”.105
Allor mi disse: “Quel che da la gota porge la barba in su le spalle brune, fu – quando Grecia fu di maschi vòta,108
sì ch’a pena rimaser per le cune – augure, e diede ’l punto con Calcanta in Aulide a tagliar la prima fune.111
Euripilo ebbe nome, e così ’l canta l’alta mia tragedìa in alcun loco: ben lo sai tu che la sai tutta quanta.114
Quell’altro che ne’ fianchi è così poco, Michele Scotto fu, che veramente de le magiche frode seppe ’l gioco.117
Vedi Guido Bonatti; vedi Asdente, ch’avere inteso al cuoio e a lo spago ora vorrebbe, ma tardi si pente.120
Vedi le triste che lasciaron l’ago, la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine; fecer malie con erbe e con imago.123
Ma vienne omai, ché già tiene ’l confine d’amendue li emisperi e tocca l’onda sotto Sobilia Caino e le spine;126
e già iernotte fu la luna tonda: ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque alcuna volta per la selva fonda”.129
Sì mi parlava, e andavamo introcque.
PARAFRASI DISCORSIVA Il poeta si rivolge a noi lettori e dice che nel ventesimo canto della prima cantica gli tocca raccontare con i suoi versi la nuova pena a cui sono sottoposti i dannati che qui sono raccolti. Dante afferma di essere stato molto concentrato nel guardare giù nel fondo della bolgia del vallone; qui vide che il fondo del vallone era bagnato dalle lacrime dei dannati che piangevano angosciati. Dante riferisce di aver visto venire gente verso di lui, lungo questo vallone tondo; questi venivano camminando in silenzio e piangendo; si muovevano con passi lenti come quelli che si fanno durante le processioni religiose. [1 – 9] Non appena Dante guardò i corpi di quelli che camminavano, cioè spostò il suo sguardo dal loro viso al loro corpo, rimase incredibilmente stupito: infatti queste anime che procedevano avevano la testa girata, cioè il corpo di queste anime era girato tra il capo e il petto così che il loro volto era rivolto verso la schiena; i dannati erano quindi obbligati a camminare indietro perché non potevano guardare avanti. Qui Dante fa una riflessione e dice che, forse a causa di una paralisi, è successo ancora che sulla terra qualcuno si sia trovato così, con la testa rivolta completamente indietro, ma, prosegue, dicendo ci non aver mai visto nulla di simile ed è convinto che sulla terra questo non sia mai accaduto. [10 – 18] In questa terzina il poeta si rivolge a noi e dice: “Lettore, che Dio ti possa concedere di trarre un insegnamento dalla lettura di questo testo; ma adesso rifletti bene, secondo te avrei io potuto evitare di piangere dal momento che vidi da vicino l’immagine dell’uomo storpiata così tanto: infatti le lacrime che scendevano dagli occhi dei dannati andavano a bagnare le natiche dei dannati scendendo lungo il filo della schiena. [19 – 24] Infatti anch’io piangevo appoggiato a una di quelle sporgenze della dura roccia quando Virgilio mi guardò e mi disse: “Ma piangi anche tu, come tutti quegli sciocchi? Vedi Dante, la pietà verso questi dannati è morta perchè non ci può essere una persona più ingiusta di quella che si permette di valutare giudizio di Dio ascoltando le proprie passioni. Alza la testa Dante e guarda bene il primo dannato; è Anfiarao l’indovino sotto il quale si aprì la terra sotto la vista dei tebani; questi gli gridavano: “Dove precipiti Anfiarao, perché abbandoni la guerra?” Ma Anfiarao non smise di precipitare di abisso in abisso finché non raggiunse Minosse che prende chiunque. [28 – 36] Anfiarao era stato re di Argo un guerriero un indovino che aveva previsto la sua stessa morte. Dante osserva che ora Anfiarao ha le spalle al posto del petto perché da vivo ha voluto guardare troppo avanti nel futuro e adesso, in virtù della legge del contrappasso, guarda dietro di sé e cammina anche all’indietro [37 – 39] Poi vedono Tiresia cbhe aveva cambiato il suo aspetto, da uomo era diventatao donna e poi, per riavere el sue sembianze aveva colpito con un bastone due serpenti che erano attorcigliati. Anche Tiresia era un famoso indovino. [40 – 45] Il terzo indovino che incontrano è Arunte, un mago che dimorava in Lunigiana sopra la città di Carrara; Arunte si era fatto una grotta tra i marmi bianchi delle Alpi apuane da cui poteva guardare le stelle e poteva guardare anche il mare la vista delle stelle del mare non gli era impedita da niente [46 – 51] Arriava quindi l’anima di una donna, l’indovina che copre il suo seno con le lunghe trecce sciolte che si chiamava Manto. Questa donna aveva vagato per molte terre e si era fermata a Mantova nella terra dove Virgilio era nato. Il poeta racconta allora la storia della fondazione della città. Qui Virgilio racconta che dopo che Tiresia, il padre di Manto era morto la città di Tebe era caduta in schiavitù. La bella Manto fu obbligata a vagare per lungo tempo nel mondo [52 – 60] Qui Virglio ci fa una lezione di geografia e dice che nel Nord dell’Italia si trova un lago ai piedi delle Alpi che dividono la penisola italica dalla Germania il Benaco o Lago di Garda. Il lago è alimentato da mille e più fonti d’acqua. il lago si trova tra le aree di influenza del vescovo di Trento di quello di Verona e di quello di Brescia. In fondo al lago, dove le colline moreniche arrivano alla pianura, sorge la città di Peschiera, una città bella e robusta con una fortezza solida in grado di tenere testa ai Bresciani e Bergamaschi. [61 – 72] Da quel punto defluisce tutta l’acqua che non può essere contenuta nel lago di Garda, e quindi a Peschiera esce il Mincio, che scorre attraverso i verdi pascoli. il fiume mantiene questo nome fino a Governolo dove sfocia nel fiume Po. [73 – 78] Il Mincio scorre per un tratto relativamente breve prima di incontrare un avvallamento un’area che si allaga e che diventa quindi una palude, con l’acqua stagnante che durante la stagione estiva può essere anche malsana. Passando da quella palude la bella Manto vide in mezzo a tutto quel pantano, un pezzo di terra che non era coltivato e su quale non c’era traccia di abitante. E così, proprio per sfuggire ad ogni società umana, lì si fermò la bella Manto con il suo seguito di servi con l’intenzione di dedicarsi alla magia di restare in pace e rimase lì fino alla morte. [79 – 87] In seguito altri uomini si raccolsero in quel luogo che era diventato una fortezza naturale proprio in virtù di tutto quel pantano che lo circondava. Proprio lì quindi venne edificata una città sopra le ossa della maga Manto e in onore a lei, che per prima aveva scelto quel luogo come sua dimora, quella città venne chiamata Mantova. Virgilio poi racconta che gli abitanti di Mantova furono in passato molto più numerosi prima che la stoltezza del signore di Mantova, Alberto da Casalodi, si lasciasse ingannare da Pinamonte dei Bonacolsi. Dante infatti racconta che Alberto da Casalodi si fosse fatto convincere da Pinamonte dei Bonacolsi ad esiliare gli esponenti di spicco di molte famiglie in vista della città di Mantova. E furono proprio questi provvedimenti ad attirare intorno al Conte Alberto molti nemici tanto che si ritrovò senza sostegno. Ecco che qui Dante ritiene che proprio questo Pinamonte fosse particolarmente abile nell’inganno. [88 – 96] Virgilio ha voluto raccontare la storia di Mantova e quindi conclude dicendo: “Mi auguro che se tu sentirai mai raccontare una storia diversa sull’origine della mia città tu non gli dia credito, nessuna menzogna potrà sostituire la verità che è questa che hai sentito da me.” Dante rassicura il maestro e garantisce che i suoi ragionamenti sono così chiari che ottengono da lui tutta la fiducia che meritano; in confronto le parole di ogni altro non gli farebberio alcun effetto. [97 – 102] Dante quindi chiede di sapere chi sianole anime che stanno arrivando, chiede se ci sia qualcuno degno di nota. Allora Virgilio mostra l’anima di quel dannato dalle cui guance scende una barba lunga e scura fino alle spalle; egli fu Euripilo, un greco, un augure, un indovino; lui insieme con Calcante indicò il momento favorevole per far partire i re greci alla volta di Troia. Virgilio dice di aver scritto questo nella sua Eneide ed è sicuro che Dante se ne ricordi, perchè ha letto tutta la sua opera. [103 – 114] Poi mostra l’anima di Michele Scotto, un astrologo e filosofo che era stato attivo nella corte di Federico II di Svevia. Secondo Dante costui aveva utilizzato la magia solo per ingannare. Poi mostra Guido Bonatti, un astrologo di Forlì, molto famoso nel medioevo, esponente di spicco della parte ghibellina. Quindi indica Asdente. Questo è il soprannome attribuito a di Mastro Benvenuto, un calzolaio di Parma calzolaio che era vissuto nella seconda metà del secolo XIII che, secondo Virgilio, nella vita avrebbe meglio a dedicarsi solo al cuoio e all’ago, avrebbe quindi dovuto attendere al mestiere di ciabattino, invece che dedicarsi alla magia e poi finire all’inferno; ma ovviamente ormai è troppo tardi per pentirsi. [115 – 120] Poi indica delle donne infelici che hanno abbandonato l’ago, la spola e il fuso e si sono dedicate anch’esse a fare le indovine e hanno fatto mille magie. [121 – 123] Ma Virgilio poi sollecita Dante, lo invita a procedere visto che ormai sono le sette del mattino e il loro viaggio deve continuare.
1. Perché è considerato il padre della lingua italiana in quanto ha trasformato il volgare italiano in una lingua letteraria.
2. Perché attraverso lo Stilnovo ha influenzato la produzione di Francesco Petrarca e quindi ha condizionato tutta la poesia italiana.
3. Perché con la Commedia ha raccontato il Medioevo e ha inaugurato l’età moderna.
4. Perché ha raggiunto livelli inimitabili nella sperimentazione della lingua italiana.
5. Perché dopo di lui tutti gli autori si sono confrontati con la sua opera.
Documento – Chi era Dante?
Tratto dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani.
Scritta nella prima metà del Trecento, la Nuova Cronica è uno dei documenti più significativi di tutta la cultura italiana. Si tratta di un’opera innovativa nella quale sono raccontati fatti che si sono verificati anche al di là delle mura fiorentine. In essa trovano posto in essa i più svariati argomenti che la tradizione annalistica trascurava. La Nuova Cronica contiene un ricco resoconto che parte dalla torre di Babele e arriva fino ai giorni dello storiografo. Ideata nei primi decenni del Trecento, l’opera rimane incompiuta a causa della morte per peste dell’autore. È strutturata in Dodici libri nei quali si racconta la storia di Firenze dall’antichità agli anni della peste. I primi sei libri sono dedicati alla storia antica e hanno un tono leggendario. Gli ultimi sei sono considerati i più innovativi in quanto raccolgono informazioni, anche di tipo statistico, relative all’età contemporanea allo storiografo: è evidente in essi il punto di vista tipico di un mercante internazionale e dell’esperto finanziere. Si tratta di un’opera straordinaria e ricchissima fonte di informazione.
Questi fue grande letterato quasi in ogni scienza, tutto fosse laico; fue sommo poeta e filosafo, e rettorico perfetto tanto in dittare, versificare, come in aringa parlare, nobilissimo dicitore, in rima sommo, col più pulito e bello stile che mai fosse in nostra lingua infino al suo tempo e più innanzi. Fece in sua giovanezza i·libro de la Vita nova d’amore; e poi quando fue in esilio fece da XX canzoni morali e d’amore molto eccellenti, e in tra·ll’altre fece tre nobili pistole; l’una mandò al reggimento di Firenze dogliendosi del suo esilio sanza colpa; l’altra mandò a lo ‘mperadore Arrigo quand’era a l’assedio di Brescia, riprendendolo della sua stanza, quasi profetezzando; la terza a’ cardinali italiani, quand’era la vacazione dopo la morte di papa Chimento, acciò che s’accordassono a eleggere papa italiano; tutte in latino con alto dittato, e con eccellenti sentenzie e autoritadi, le quali furono molto commendate da’ savi intenditori. E fece la Commedia, ove in pulita rima, e con grandi e sottili questioni morali, naturali, strolaghe, filosofiche, e teologhe, con belle e nuove figure, comparazioni, e poetrie, compuose e trattò in cento capitoli, overo canti, dell’essere e istato del ninferno, purgatorio, e paradiso così altamente come dire se ne possa, sì come per lo detto suo trattato si può vedere e intendere, chi è di sottile intelletto. Bene si dilettò in quella Commedia di garrire e sclamare a guisa di poeta, forse in parte più che non si convenia; ma forse il suo esilio gliele fece. Fece ancora la Monarchia, ove trattò de l’oficio degli ‘mperadori. Questo Dante per lo suo savere fue alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e quasi a guisa di filosafo mal grazioso non bene sapea conversare co’ laici; ma per l’altre sue virtudi e scienza e valore di tanto cittadino ne pare che si convenga di dargli perpetua memoria in questa nostra cronica, con tutto che per le sue nobili opere lasciateci in iscritture facciano di lui vero testimonio e onorabile fama a la nostra cittade. (Giovanni Villani, Nuova Cronica, libro X, cap. CXXXVI)
L’epoca di Dante
La prima parte della vita di Dante ha come sfondo Firenze, un libero comune che lotta per il potere in un’area piuttosto ampia della Toscana che vuole ottenere la supremazia politica sulla parte centrale della penisola italiana.
La Firenze di Dante, insomma, è una vera e propria città-stato che nella situazione e nelle vicende interne riflette il contesto politico, italiano ed europeo, degli ultimi decenni del secolo XIII.
Guelfi e ghibellini
L’Italia è dalla metà del secolo il teatro delle lotte sanguinose fra guelfi e ghibellini.
I guelfi sostengono la supremazia del papato sull’impero.
I ghibellini invece sostengono la supremazia dell’imperatore sul papa.
Le due fazioni, i due partiti, provocarono nell’Italia del basso medioevo divisioni, conflitti, tradimenti e ingerenze da parte delle potenze straniere. Inoltre questi conflitti hanno impedito il processo di formazione di un’entità politica unitaria.
Alcuni scontri famosi hanno lasciato il segno nella memoria collettiva e il loro ricordo apparirà anche nelle opere di Dante.
A Montaperti, nel 1260, i guelfi sono travolti dai ghibellini. La sconfitta fu bruciante e molti guelfi furono trucidati.
A Benevento, nel 1266, i ghibellini guidati da Manfredi, figlio naturale di Federico II, vennero a loro volta duramente sconfitti dai guelfi guidati da Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia.
A Tagliacozzo, nel 1268, Carlo d’Angiò, proclamato dal papa legittimo re d’Italia, sconfisse Corradino. Con la decapitazione di questi, ultimo erede legittimo di Federico II, scomparve definitivamente la dinastia sveva.
Ognuna di queste battaglie, i cui esiti furono favorevoli ora ai guelfi ora ai ghibellini, provocò conseguenze dirette sui comuni italiani, con un succedersi alterno di esili e di rientri gloriosi dell’una o dell’altra parte.
A Firenze, dopo l’aspra lotta fra guelfi e ghibellini conclusasi con il sopravvento dei guelfi, le tensioni si ripresentarono quando i guelfi si divisero in due fazioni: i Bianchi e i Neri. I Bianchi fanno riferimento alla famiglia dei Cerchi e i neri alla famiglia dei Donati.
Le fazioni laceravano il tessuto sociale di Firenze, pensate che Dante aveva aderito alla fazione dei Bianchi, ma sua moglie apparteneva alla famiglia Donati.
Bianchi e Neri si combattono ferocemente in una vera e propria guerra civile: chi vince conquista il controllo del comune, ma a chi perde tocca l’esilio se non la morte.
Biografia
Nasce a Firenze da famiglia guelfa. Dante, diminutivo di Durante, nacque a Firenze tra la seconda metà del maggio e la prima metà del giugno 1265, da Alighiero di Bellincione e da Bella degli Abati.
La data precisa della nascita è incerta, come molte altre notizie sulla sua vita; ma Dante stesso, nel canto XXII del Paradiso, dice di essere nato sotto il segno dei Gemelli.
La famiglia degli Alighieri apparteneva alla piccola nobiltà guelfa e versava in condizioni economiche modeste. Per poter mantenere la famiglia il padre di Dante dovette dedicarsi all’attività di cambiavalute, un’attività che allora era considerata poco onorevole per un nobile.
La famiglia, inoltre, non rivestiva un ruolo particolarmente importante nella politica di Firenze. Questo è dimostrato dal fatto che dopo la sconfitta che i guelfi subirono a Montaperti nel 1260, la famiglia Alighieri non era stata esiliata come tutte le importanti famiglie guelfe.
A quell’epoca i matrimoni erano combinati dalle famiglie e anche Dante non si sottrasse al suo destino. A lui fu data in moglie, intorno al 1285 Gemma Donati, figlia di Manetto Donati che apparteneva a una delle famiglie guelfe più illustri di Firenze. L’unione tra Dante e Gemma fu abbastanza felice e dal matrimonio nacquero alcuni figli: sicuramente Jacopo, Pietro e Antonia, che si fece suora con il nome di Beatrice. Sembra che ci fosse anche un quarto figlio di nome Giovanni.
Come fiorentino, Dante partecipò alle vicende militari della sua città: nel 1289, durante la battaglia di Campaldino e in seguito combatté contro Pisa.
La prima formazione culturale di Dante ebbe luogo nella Firenze comunale di fine Duecento, una città dominata dalle lotte irriducibili tra le fazioni. In questo contesto politico spesso gli intellettuali svolgevano un ruolo politico di primo piano.
Suo maestro fu Brunetto Latini, profondo conoscitore della letteratura francese, famoso in tutta Europa grazie agli studi sull’arte retorica applicata alla politica.
Nella Divina Commedia, nel quindicesimo canto dell’Inferno, Dante racconta di aver incontrato il suo amato maestro Brunetto Latini.
I due dialogano per un po’, poi Brunetto deve andare, la schiera infernale lo aspetta. Le parole che Dante scrive dopo il loro congedo testimoniano la grande affezione che egli prova per il suo Maestro.
“Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro
Anche l’attività poetica di Dante incominciò molto precocemente a Firenze.
La città toscana era tra le più attive come centro di diffusione della nuova poesia cortese, il cui maestro era Guittone d’Arezzo. A Firenze vivevano altri insigni poeti, coetanei di Dante, tra i quali Guido Cavalcanti, la cui amicizia è di fondamentale importanza per Dante. Dante intratteneva frequenti scambi poetici con poeti fiorentini e toscani, come Lapo Gianni e Cino da Pistoia, con i quali egli condivise l’esperienza stilnovistica.
La produzione giovanile e la Vita nova. L’opera più importante tra gli scritti giovanili di Dante fu il libro della Vita nova (ultimato quasi certamente nel 1294), in cui per la prima volta compare Beatrice (comunemente identificata con Bice figlia di Folco Portinari, moglie di Simone dei Bardi), la donna che diventerà per Dante simbolo della perfezione dell’amore e della bellezza femminile.
In seguito alla morte prematura di Beatrice, nel 1290, e probabilmente sollecitato anche da una profonda crisi intellettuale e morale, Dante scelse di abbandonare per un certo periodo la poesia per dedicarsi agli studi filosofici.
Frequentò allora le due principali «università» fiorentine del tempo: lo «studium» francescano di Santa Croce, specializzato nella lettura e nel commento di Sant’Agostino, dei padri della Chiesa e dei mistici e quello domenicano di Santa Maria Novella, specializzato nello studio di Aristotele attraverso i commenti dei teologi contemporanei Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. L’immersione nello studio della filosofia durò «trenta mesi», secondo la testimonianza del Convivio, e fu preceduta da un breve soggiorno a Bologna, tra il 1286 e il 1287, durante il quale Dante può aver avuto accesso al fiorente centro universitario di quella città.
L’impegno politico
Il 1295 fu l’anno decisivo nella biografia dantesca. Infatti venne approvata una modifica agli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella, in base alla quale anche i nobili potevano accedere alle cariche pubbliche purché iscritti a una corporazione.
Dante, bramoso di entrare nel mondo politico, si iscrisse a quella dei medici e degli speziali con la menzione di poeta.
Nello stesso anno fece il suo ingresso in politica: dapprima nel Consiglio del Popolo, poi nel Consiglio dei Savi per l’elezione dei Priori. Il priorato, era la più alta carica pubblica del comune dopo quella di podestà.
Nel 1300 guidò con successo un’ambasceria a San Gimignano e a coronamento della sua carriera politica, ricevette l’incarico di priore per il bimestre 15 giugno -15 agosto 1300. Questo incarico fu però all’origine della sua rovina politica e umana, secondo quanto scrisse lo stesso Dante in una lettera ora perduta.
Proprio in quel periodo, infatti, Firenze si accingeva a vivere un’ulteriore stagione di lotte civili, non più tra guelfi e ghibellini, che erano stati definitivamente sconfitti, bensì tra due fazioni formatesi all’interno del partito guelfo: i Bianchi e i Neri, capitanati rispettivamente dalle potenti famiglie dei Cerchi e dei Donati.
I Donati si allearono ben presto con il pontefice Bonifacio VIII e ne appoggiarono la politica teocratica e le continue ingerenze nel governo della città.
Nel tentativo di arginare i conflitti che esplodevano in città tra esponenti delle due fazioni, i priori dovettero mandare in esilio parecchi illustri fiorentini, capi delle parti in opposizione.
Fu questa una decisione assai dolorosa per Dante, perché colpiva sia la sua stessa famiglia, Dante, in seguito al matrimonio, era imparentato con i Donati, che i suoi affetti, l’amico Guido Cavalcanti era un tenace sostenitore dei bianchi; in quel periodo Cavalcanti fu mandato in esilio per evitare continui scontri.
L’opposizione a Bonifacio VIII
Purtroppo le condanne e gli esili non portarono che ulteriori inasprimenti delle rispettive posizioni.
Nel 1301 Dante, non era più priore ma era componente del Consiglio dei Cento. Egli, appartenente alla fazione dei bianchi, cercò di contrastare la politica del papa Bonifacio VIII e del suo alleato Carlo II d’Angiò, che avvertiva sempre più come una minaccia per Firenze.
Nell’autunno dello stesso anno, Dante guidò un’ambasceria a Roma, con l’obiettivo di distogliere dai suoi propositi papa Bonifacio VIII.
Il pontefice infatti voleva far intervenire in Toscana il principe francese Carlo di Valois sostenendo che il principe francese avrebbe favorito la pacificazione tra le due fazioni. In realtà Bonifacio voleva sostenere la politica dei neri che era favorevole alla sua linea politica di controllo sulla città.
Nonostante l’iniziativa diplomatica, mentre Dante era a Roma, Carlo di Valois entrò nella città, permettendo ai Neri di impadronirsi con la forza del governo
Dante esponente dei Bianchi, a Roma, fu raggiunto dalla notizia del colpo di stato. La sua casa fu saccheggiata.
Il podestà di Firenze, dopo un’inchiesta sommaria sulle azioni dei priori dei due anni precedenti, accusò formalmente Dante di ribellione al papa e di baratteria, ossia di appropriazione indebita di denaro pubblico. Dante fu richiamato a Firenze per discolparsi, dall’accusa di baratteria ma non si presentò. Era consapevole del rischio di essere arrestato.
Da quel momento Dante non farà più ritorno a Firenze: vivrà in doloroso esilio tutta la sua esistenza.
Il 27 gennaio 1302 Dante fu condannato in contumacia al pagamento di una multa, a due anni di confino, al divieto a vita di partecipare al governo della città.
Non avendo pagato, il 10 marzo dello stesso anno Dante fu condannato alla confisca dei beni e alla morte sul rogo se fosse stato catturato dalle autorità.
L’esilio
Incomincia così la seconda parte della vita di Dante, la più difficile: l’esilio. Di questo periodo possediamo notizie ancora più incomplete e frammentarie.
Probabilmente, negli anni tra il 1302 e il 1304 partecipò alle iniziative militari dei fuorusciti Bianchi per tornare a Firenze, sia pure con gravi riserve sulle loro scelte, specialmente sull’alleanza con gli esuli ghibellini.
Ma nel 1304 i Bianchi furono sconfitti in modo definitivo.
Da quel momento in poi, Dante perse progressivamente la speranza di tornare e di essere riabilitato, nella sua città.
Si dovette rassegnare a una vita errabonda, sempre ospite di signori più o meno potenti, presso i quali svolse diversi incarichi: dalla compilazione di documenti ufficiali alle missioni diplomatiche.
Furono anni molto produttivi dal punto di vista letterario, come se Dante cercasse di compensare la grave frustrazione politica e umana con la scrittura. In condizioni indubbiamente difficili, perché privo di una dimora fissa e quindi di una biblioteca stabile, compose il Convivio e il De vulgari eloquentia, rimasti incompiuti, il trattato politico Monarchia e il capolavoro, la Commedia.
Tra i primi a ospitare Dante fu Bartolomeo della Scala, signore di Verona, nel 1303. Documenti e firme su trattati testimoniano che dante fu a Treviso, tra il 1304 e il 1306; in Lunigiana, nel 1306; nel 1307 e nel 1311 nel Casentino.
Tra il 1308 e il 1313 Dante coltivò il sogno che l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo lo aiutasse a porre termine alla sua condizione di esule. Probabilmente conobbe di persona Arrigo, mentre quest’ultimo si trovava in Italia settentrionale in attesa di sferrare l’attacco definitivo ai guelfi guidati da Firenze.
Ma anche questa speranza svanì, nel 1313, con la morte dell’imperatore.
Dal 1313 al 1319 Dante trovò ospitalità di nuovo a Verona, presso Cangrande della Scala a cui Dante gli dedicò la terza cantica della Commedia.
Nel 1315 ricevette da Firenze un ultimo invito alla riconciliazione; egli però lo ritenne troppo umiliante: avrebbe dovuto pagare una multa e fare pubblica ammenda, vestito di un saio e con in testa una mitria, alla stregua di un eretico o un malfattore, in una processione che avrebbe attraversato la città dal carcere al duomo.
Il rifiuto gli costò la conferma delle condanne all’esilio, alla morte e alla confisca dei beni, condanne che anzi furono estese anche ai figli.
Tra il 1319 e il 1321 si colloca l’ultimo soggiorno di Dante, ospite a Ravenna presso la corte di Guido Novello da Polenta.
Nel 1321 si recò a Venezia per una missione diplomatica su incarico del signore ravennate: si ammalò di febbri malariche durante il viaggio di ritorno e morì a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre. Il suo corpo è tuttora sepolto a Ravenna, presso la chiesa di San Francesco.
Domenico di Michelino, Dante e il suo poema, 1465. Affresco nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze.
La formazione culturale
Inizialmente ebbe un maestro di latino che gli permette di accedere a quella che era la lingua indispensabile per ogni persona colta dell’epoca. Poi Dante si avvicina alle culture d’oltralpe attraverso la lettura di testi in lingua d’oc e d’oïl.
Per Dante il primo autentico maestro di stile e di cultura è stato Brunetto Latini, che deve aver rappresentato anche una fonte importante di notizie e di dati sulla storia europea, vista l’importante attività diplomatica che aveva svolto per conto di Firenze nel periodo della prevalenza ghibellina.
Conoscitore della realtà politica di Castiglia e di Francia, in cui aveva vissuto fino alla vittoria dei guelfi nel 1266, Brunetto trasmise la sua esperienza al governo di Firenze e con ogni probabilità a Dante, che grazie a lui riuscì a consolidare la propria ambizione di intellettuale e di scrittore.
Quasi certamente Brunetto iniziò Dante non solo ai testi più prestigiosi della letteratura francese antica, ma anche a quelli arabi grazie alla mediazione culturale della corte di Toledo, capitale della Castiglia.
La maturità intellettuale acquisita alla scuola di Brunetto consente a Dante di mettersi in relazione con una cerchia di uomini di cultura del suo tempo, a incominciare dall’amico Guido Cavalcanti, appartenente a una delle famiglie più antiche e illustri di Firenze.
I Cavalcanti si vantavano di essere tra i fondatori della parte guelfa a Firenze ed erano avversari della potente famiglia ghibellina degli Uberti. Per tentare di raggiungere una conciliazione tra le due famiglie a Guido, figlio di Cavalcante Cavalcanti, era stata data in sposa Bice, figlia di Farinata degli Uberti.
Il matrimonio era una pratica politica molto utilizzata nella società medievale.
Lo Stilnovo
Guido Cavalcanti ha il merito di trapiantare a Firenze una nuova poesia nata a Bologna e il cui «padre» era Guido Guinizelli. Questa nuova poesia, questo “Stilnovo” permetteva di esprimersi con una limpidezza e una dolcezza che piaceva a Dante, ma che era anche sostenuta da contenuti profondi, radicati nella filosofia e nella mistica.
Dante fa proprio questo «dolce stilnovo» e ne diventa l’esponente principale.
Beatrice nella Vita nova è già una donna-angelo, colei che dona la beatitudine ai mortali, ma solo a quelli dotati di un animo predisposto.
Dante riesce a superare le prospettive dell’amico-maestro Guido Cavalcanti nelle posizioni del quale, anzi, individua un errore fondamentale.
Egli infatti non ritiene più, come Guido, che la passione d’amore porti solo scompiglio nella mente del poeta, distogliendolo dagli studi e portandolo a una morte intellettuale. È invece convinto che l’amore, grazie alla perfezione spirituale della donna che lo suscita, conduca l’anima alla perfezione e alla beatitudine.
Testo – Guido, i’ vorrei
Questo sonetto fa parte delle poesie giovanili di Dante; è stato scritto tra il 1283 è il 1290, era indirizzato a Guido Cavalcanti, suo grande amico. Il tema centrale di questo componimento è la concezione stilnovista dell’amicizia e dell’amore vissuti in un’atmosfera incantata. Dante trae spunto dalla tradizione letteraria francese e fa riferimento a mago Merlino, alla sua magia e ad un vascello incantato.
Forma: Sonetto di quattordici endecasillabi con schema di rime: ABBA-ABBA- CDE EDC
Commento
Il sonetto fa parte delle poesie giovanili di Dante ed è considerato come l’atto di nascita dello Stilnovo, uno stile è caratterizzato da una lingua più delicata, limpida e sensibile, prerogativa di una ristretta cerchia di spiriti nobili. Il tema principale del sonetto è la descrizione di un sogno ambientato nel mondo cortese, un sogno completamente staccato dalla vita reale in un ambiente di fantasia.
Le quartine raccontano dell’amicizia tra Dante, Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, tre poeti stilnovisti, nelle terzine, invece, si introduce ciò che li accomuna, il “ragionar sempre d’amore” (v. 12), in un contesto fiabesco, tra spiriti eletti: tre uomini e tre donne.
L’iniziale desiderio di Dante “Guido, i’ vorrei” diventa un desiderio collettivo, che accomuna tutti e tre gli amici. Si tratta di un testo molto moderno: Dante infatti mette sulla barca dei suoi sogni tre amici e tre donne, una comunità ideale in cui si possa immergersi in ragionamenti amorosi, condividendo pensieri e sogni, in modo che ognuno di loro possa essere felice.
Sono interessanti anche altri due elementi: il tre e il trenta. Dante utilizza il numero tre (tre gli amici e tre le donne amate) che è un numero legato al concetto di perfezione che ha quindi grande valenza simbolica. Inoltre nel verso 10 parla di una donna ‘quella ch’è sul numer de le trenta’.
In questo verso Dante fa riferimento ad un suo componimento, ora perduto, in cui aveva elencato le sessanta donne più belle di Firenze. La donna invitata era quella che occupava il trentesimo posto di questa lista e che sicuramente i suoi amici conoscevano bene.
Figure Retoriche
Apostrofi – “Guido” (v. 1);
Allitterazioni – della “v: “vasel, vento, vostro” (vv. 3-4); della “s”: “stare, insieme, crescesse, disio” (v. 8); della “r”: “ragionar, sempre, amore” (v. 12);
Anastrofi – “di stare insieme crescesse il disio” (v. 8); “con noi ponesse il buono incantatore” (v. 11);
Polisindeti – “tu e Lapo ed io” (v. 1); “e monna Vanna e monna Lagia” (v. 9);
Perifrasi – “il buono incantatore” (v. 11);
Metafore – “vasel” (v. 3);
Similitudini – “contenta / sì come io credo che saremmo noi” (vv. 13-14).
Molte delle parole usate da Dante ci aiutano a capire che Dante sta esprimendo un desiderio: vorrei, incantamento [magia], vasel [vascello], fortuna, talento [desiderio], incantatore [Mago Merlino].
La struttura del sonetto è circolare. Infatti il poeta inizia parlando in prima persona nel primo verso (“vorrei”) e anche nell’ultimo (“credo”).4
Domande
Quali sono i temi fondamentali del sonetto
Riscrivi il testo del sonetto come se lo volessi raccontare a una persona straniera o ad un bambino, con linguaggio semplice e frasi brevi.
A chi si riferisce il verso 10?
Il sonetto presenta una situazione di gioia in uno scenario di incanto. Immagina una situazione in cui tu vorresti essere. Dove ti troveresti? Con chi? In quali circostanze?
Anche questo è un testo che si collega alla poesia comico realistica, che appartiene alla sfida poetica tra Dante e Forese Donati.
Gli studi filosofici
Fin dalle sue prime manifestazioni l’attività letteraria di Dante appare estremamente colta, nutrita dal sapere filosofico del tempo.
Dante ha una incredibile avidità intellettuale: egli non sceglie in modo esclusivo un sapere, un indirizzo filosofico particolare, ma cerca di conoscerli tutti, di comprenderli e di servirsene per il suo progetto letterario. Si avvicina sia al pensiero dei filosofi greci attraverso la conoscenza del pensiero medievale.
Dopo la morte di Beatrice Dante si dedica agli studi filosofici vive un periodo di confusione intellettuale. Per Dante la filosofia rappresenta un percorso verso la conoscenza, verso la verità.
E per qualche tempo, probabilmente fino alla stesura dei primi tre libri del Convivio, egli si convince di poter raggiungere la verità con i mezzi terreni della propria mente.
Ma ben presto modifica la sua concezione e, quando scrive la Commedia, è ormai convinto che non su questa terra, ma solo nell’altra vita, si possa giungere alla verità.
Dante e il sapere scientifico
Nell’opera di Dante è facile avvertire l’influsso delle teorie sulla fisiologia umana che Alberto Magno aveva elaborato sulla base della fisica aristotelica. Secondo tali studi il nostro corpo è percorso da «spiriti vitali» o «funzioni dell’anima», che sono invisibili e preposti al funzionamento dei diversi organi del corpo. Nella Vita nova Dante descrive i movimenti repentini degli «spiriti» provocati dalla presenza della donna amata: ogni stato psico-fisico, come esultanza, dispiacere o perdita di coscienza, viene spiegato come conseguenza del disporsi di questi spiriti all’interno del corpo o del fatto che tali spiriti hanno abbandonato, temporaneamente, la loro sede.
La concezione dantesca della forma dell’universo, come viene presentata nella Commedia, deriva dal sapere scientifico aristotelico.
Dante accoglie in pieno la cosmologia di Aristotele, ma la adatta perfettamente alla sua fede cristiana:
la Terra è un globo con un emisfero abitato e l’altro sommerso dalle acque, in cui sorge la montagna-isola del purgatorio.
Intorno alla Terra ruotano nove cieli concentrici, costituiti da immense sfere trasparenti in cui sono incastonati i rispettivi astri: nell’ordine, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, stelle fisse.
Il nono cielo, quello più vicino a Dio e detto Primo Mobile, non sostiene nessun astro e funge piuttosto da raccordo fra il mondo divino, fonte di vita, e l’universo fisico a cui trasmette il movimento che da Dio si origina.
Oltre tutti questi cieli è l’Empireo, sede eterna di Dio e dei beati. Nel Paradiso, la terza cantica della Commedia, Dante descrive questo immenso, armonioso sistema cielo per cielo, mostrando di credere alla sua reale esistenza.
La sostanza di cui sono composti cieli e astri è, secondo Dante, energia divina cristallizzata e non è soggetta alle leggi di usura e distruzione che dominano nel mondo terreno.
Anzi, attraverso la rotazione dei cieli intorno alla Terra Dio distribuisce su di essa le virtù e le qualità che prima imprime a ciascun cielo.
Questa concezione cosmologica consente a Dante di dare fondamento alla credenza nell’influsso degli astri sulla vita umana: l’astrologia era per lui una vera e propria scienza, e come tale poteva conciliarsi con la fede.
La fiducia dantesca nella complessiva armonia dell’universo è testimoniata dai numerosi canti del Purgatorio e del Paradiso. In essi Dante spiega al lettore la posizione dei pianeti in quel preciso momento del viaggio di Dante nell’aldilà. Spiega inoltre che eventi celesti ed eventi terreni si corrispondano nel grandioso disegno divino.
Nel Medioevo ogni elemento che appartiene al mondo terreno corrisponde a un concetto o un valore che appartiene invece al mondo dell’eternità. Per questo si parla di allegorismo medievale perché l’allegoria, la figura retorica medievale per eccellenza, è uno strumento utilissimo per rappresentare la stretta relazione tra mondo umano e mondo divino, ma anche per suggerire e insegnare nozioni di natura morale.
La Commedia è quindi anche un poema allegorico e didascalico, in cui l’autore si serve di elementi tratti dall’esperienza quotidiana, e quindi noti ai lettori, per esprimere concetti astratti o comunque appartenenti alla dimensione spirituale.
Le opere
La Vita Nova
Nella Vita Nuova, opera giovanile e scritta in volgare, Dante ripercorre idealmente la storia del suo amore per Beatrice.
Dante scrive la Vita Nova tra il 1292 ed il 1293, dopo la morte di Beatrice. L’incontro con Beatrice, infatti, diventa il punto di svolta della maturazione umana e poetica di Dante tanto che la sua vita è, da quel momento “rinnovata dall’amore”. Dante unisce testi in prosa e testi in rima che aveva scritto precedentemente.
L’opera è divisa in tre parti:
nella prima parte viene descritto l’innamoramento e vengono descritti gli effetti di questo amore sul poeta;
nella seconda parte dante racconta il suo tentativo di avvicinamento alla donna e il suo rifiuto;
nella terza parte Dante deve elaborare il lutto di Beatrice.
De Vulgari Eloquentia
Scritto in latino tra il 1304 e il 1306 Dante delinea le regole sull’arte dello scrivere in italiano volgare. Dante scrive in latino per convincere i dotti del tempo della dignità e delle potenzialità della lingua volgare aveva dignità. Dante vuole dimostrare che il volgare può essere usato anche per la letteratura “alta”.
Convivio
Dante scrive il Convivio in lingua volgare tra il 1304 e il 1307, nei primi anni dell’esilio. L’autore sceglie di utilizzare il volgare per rappresentare un ipotetico convivio, un banchetto in cui ci si nutre di filosofia e di principi morali. Dante vuole convincere gli uomini di potere che lo studio della filosofia e il rispetto delle leggi morali sono condizione necessaria per la convivenza nella società.
De Monarchia
Scritto tra il 1310 e il 1313, il De Monarchia è scritto in latino. in esso Dante affronta il tema politico. Per il poeta, l’unica forma di governo che possa assicurare pace e sicurezza è la monarchia, una monarchia universale, che rifletta l’unicità e l’universalità del regno di Dio e garantisca la pace, la giustizia e la libertà degli uomini. Dante sviluppa la teoria dei due soli, costituiti da monarchia e papato: entrambi regnano, ma il papa detiene il potere spirituale, mentre l’imperatore quello temporale.
Le rime
Si tratta di una raccolta di componimenti poetici che Dante scrive nel corso della sua vita e che sono legati alle varie esperienze di vita del poeta. Le poesie dantesche sono state raccolte dai posteri.
– Secondo te, quali tra i 5 motivi per cui Dante è famoso sono i più importanti? Scegline due e motiva la tua risposta – Leggi il paragrafo in cui si parla di Guelfi e Ghibellini e delinea le caratteristiche delle due fazioni. Se tu fossi vissuto a quell’epoca a quale fazione avresti aderito? Motiva la tua risposta. – Racconta in un testo di 5 righe l’infanzia di Dante – Dante ha avuto alcuni amici e maestri importanti: chi sono e cosa condivideva con loro? – E tu, hai amici preziosi? Cosa condividi con loro? – Dante si impegna nell’attività politica della sua città, per quale motivo secondo te? Ha successo come politico o no? – é apprezzato nel suo impegno? – a quale fazione politca appartiene? – Per quale motivo Dante viene esiliato? – Come vive i suoi ultimi vent’anni? – Quali sono le opere più importanti di Dante? – Chi è Beatrice? – Spiega com’è costruita la Divina commedia. – Nel primo Canto Dante incontra tre fiere: chi erano e cosa rappresentavano?
Altre domande 1. A quale fazione politica apparteneva Dante? 2.Quale episodio è all’origine del suo esilio? 3. Cita almeno tre opere scritte da Dante e spiegane brevemente il contenuto. 4. Per quale motivo Dante usa la lingua volgare nella Divina Commedia? 6. Chi guida Dante nel suo viaggio nei regni dell’oltretomba? 7. In che cosa consiste la “legge del contrappasso”. 8. Che cos’è un’allegoria?
Opere
Fonti
Moduli di letteratura italiana ed europea, di A. Dendi, E. Severina, A. Aretini Carlo Signorelli Editore, Milano
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